Recensione – Frankenstein Junior: il capolavoro della commedia parodistica

Di seguito la recensione di Frankenstein Junior, capolavoro della commedia parodistica

Frankenstein Junior è un classico della parodia, film del 1974 in grado di influenzare il cinema per il suo nuovissimo approccio in quanto commedia. Diretto da Mel Brooks, la durata è di 106 minuti. Il cast è composto da Gene Wilder, Peter Boyle, Marty Feldman, Madeline Kahn, Cloris Leachman, Teri Garr, Kenneth Mars, Richard Haydn, Liam Dunn, Danny Goldman, Gene Hackman, Lou Cutell, Randolph Dobbs, John Dennis, Rick Norman, Leon Askin, Ian Abercrombie, Oscar Beregi, Rusty Blitz, Patrick O’Hara, Terrence Pushman, Norbert Schiller, Richard Roth, Rolfe Sedan, John Madison, Monte Landis, Anne Beesley. Gene Wilder ha anche scritto la sceneggiatura con il regista Mel Brooks. In occasione della distribuzione come evento extra al cinema, dal 27 febbraio al 1 marzo 2023, ecco la trama e la recensione di Frankenstein Junior, capolavoro della commedia parodistica.

La trama di Frankenstein Junior: un sovversione del classico horror

In una New York degli anni trenta, prendono il via le vicende del medico e famoso professore universitario Frederick Frankenstein (Gene Wilder), nipote del famigerato Dottor Victor von Frankenstein, conosciuto per aver riportato in vita i tessuti morti. Frederick ha cambiato la pronuncia del suo cognome sperando che di nascondere furbamente la parentela con suo nonno, del quale il professore universitario rifiuta le teorie mediche ritenendole il parto di una mente folle e disordinata. Ma tutto cambia quando durante una lezione di neurologia all’Università dove insegna Frederick, egli stesso riceve la visita di un notaio intento a volergli comunicare che il nonno ha lasciato al nipote la sua enorme tenuta in Transilvania.

Frederick parte nell’immediato, dopo aver nervosamente fatto presente a uno studente curioso di non voler avere niente a che fare con le assurde teorie del nonno. Una volta arrivato al castello in Romania, il professore fa la conoscenza di Igor (Marty Feldman), maggiordomo gobbo che prontamente ironizza sul cambio di pronuncia adottato da Frederick, insistendo per farsi chiamare “Aigor” invece che con il suo nome naturale. Ma il giovane Frederick conosce anche la sua nuova e attraente assistente di nome Inga (Teri Garr), oltre che la misteriosa Frau Blucher (Cloris Leachman), inquietante a tal punto da spaventare i cavalli con la sola pronuncia del suo nome. Frankenstein Junior passa una prima notte segnata dagli incubi al castello, e svegliandosi, in compagnia di Inga gira per le stanze per poter scovare l’origine della musica che i due hanno udito. Nel mentre, Frederick si imbatte negli appunti del nonno capisce come lui “lo fece”, a riportare in vita una creatura. Emulandolo, il professore manda Igor a recuperare per lui un cervello, dopo essersi procurati un cadavere piuttosto grosso per dimensioni e stazza. Inserito il cervello “anormale”, il nuovo mostro creato si risveglia ma è tutt’altro che contento.

Si libera e scappa dal castello. Nel frattempo incontra una serie di persone e sperimenta il fuoco, ma catturato da Frederick viene riportato a casa, dove i due stringono un legame. Una volta che il professore mostra agli altri scienziati la sua creatura, siccome essa viene spaventata rovina la presentazione e la gente si indegna, lanciandogli oggetti. Portato in carcere, riesce ad evadere. Un incontro fatale gli cambia la vita, ma il giovane Frankenstein ha scoperto il segreto per guarire il cervello della creatura. Ponendo rimedio al suo errore iniziale, il professore e il mostro finiranno per essere accomunati da un elemento comune a tutti gli uomini, terminando in grosse risate e in una riflessione non da poco.

La recensione di Frankenstein Junior, commedia parodistica che ha influenzato il cinema

Il modo di fare parodia al cinema è giunto da questo film. Frankenstein Junior rappresenta l’apoteosi dell’inverso, un geniale modo di servirsi del linguaggio cinematografico per imbastire un dialogo tra le componenti tecniche stesse, oltre che una profonda riflessione sull’uomo in quanto tale. Questi aspetti sono ambedue esaltanti e nel corso della storia hanno avuto modo di essere apprezzati, assorbiti e rimodulati da studiosi, cinefili e registi. Nel ’74 avviene un primo grande colpo di scena per il cinema, poiché ci si trova di fronte il primo esempio di postmoderno nonché un caso di rivisitazione di un altro film, facendone contemporaneamente un remake e un sequel e risultando una formula che ha assicurato un successo economico, oltre che di fama. Mel Brooks assieme a Gene Wilder compie un vero e proprio miracolo e assembla la commedia parodistica. Il regista come un chirurgo (figura principale del film) prende Frankenstein in quanto classico horror della Universal e lo rivolta in commedia, facendo genuinamente il verso agli archetipi narrativi appartenenti al mondo dell’orrore.

Un vero e proprio atto anarchico quello di Mel Brooks, che però è abile ad unire sinergicamente degli “organi” estranei e su carta nemmeno lontanamente omogenei. Ha inizio così la danza dei generi mescolato con intenti sovversivi. Ad esempio, la prima scena in cui Frederick è con la futura moglie, richiama in maniera lapalissiana il noir per la presenza della nebbia, dell’atmosfera notturna e per l’abbigliamento del protagonista che concretamente porta alla memoria quello di un qualsiasi detective dal lungo cappotto e dal vistoso cappello. Brooks in questa scena si concentra su elementi romanzati nel noir, quelli che secondo Hitchcock sono le parti noiose della vita: dopo che il treno è partito si eleva una ingente quantità di fumo, che porta la donna a tossire rovinando ogni possibile velo di romanticismo. Non che prima ci fosse, dato che è tutto giocato su un altro filo conduttore della pellicola: la seduzione, il sesso.

A tal proposito, l’uomo viene dipinto come un “assetato di sangue”, restando in tema horror, ma in realtà anche le donne del film non fanno nulla per placare questo istinto piacevolmente animalesco. Infatti, ci sono parecchi siparietti che giocano sull’ambiguità sessuale nei dialoghi, caricando le parole di un senso che va oltre la morfologia appropriata e intesa in quel frangente. Non c’è dubbio sul fatto che Mel Brooks riesca a non scadere mai in parole puerili, giocando a più riprese sui doppi sensi e sulle reazioni teatrali dei personaggi. Questo è un altro dei punti forti del film: il sesso è il catalizzatore dei rapporti, in grado persino di sovvertire sul finale il verso mostruoso della creatura con quello acquisito dal professore durante lo scambio celebrale. Il sesso è regolatore sociale, preponderante quando il matrimonio ingabbia un già annoiato – dal suo intelletto – “Mostro” mentre cerca di evitare di avere un rapporto a letto con la nuova moglie, che sarebbe dovuta essere quella del giovane Frankenstein.

Ma quest’ultimo è comunque in buona compagnia, prendendo in moglie l’ormai ex assistente Inga, consumando il loro amore in una notte al castello. Così viene fatto intuire che c’è stato uno scambio non solo intellettuale, ma anche di stato sociale in qualche modo: l’edulcorato professore non fa nulla per placare i suoi bollori ora che non è nell’alta società; al contrario il “Mostro” è salito di grado e legge con interesse il giornale dove si intravede la scritta “Wall Street”, ma non sembra più interessato alla moglie (che esteticamente prende la forma della moglie di Frankenstein). Il fuoco simboleggia la passione, ma mentre inizialmente è avvertito come pericolo per la creatura primitiva, sul finale assume i connotati della passione. Il montaggio analogico richiama esattamente questo, prima di chiudere il film ammiccando al rapporto sessuale tra Frederick e Inga, dopo che il professore finalmente ha concretizzato quello che con l’ex moglie ha potuto soltanto accennare, in un matto gioco di seduzione.

Frankenstein Junior: un perfetto connubio estetico e semiotico

Ma non solo una parodia dell’horror, Mel Brooks mette in scena, per alcuni tratti, un’irresistibile commedia degli equivoci, che nel cinema classico hollywoodiano è stata più volte portata sugli schermi da registi del calibro di Billy Wilder e Howard Hawks. Le battute fulminanti e totalmente inaspettate sono dovute alla mancata comunicazione tra i personaggi e gli attori accentuano la gestualità oltre che le espressioni, così da assumere delle vere e proprie maschere esilaranti. Il linguaggio cinematografico è più vivo che mai per la parodia messa in scena: vengono spogliati i meccanismi tecnici ed risaltati da sotterfugi divertenti. Viene ripresa la paura per la creatura come nel film originale, come un’eredità raccolta dagli abitanti del paesino circostante. Paura delle grandezze guarda caso, di un “Mostro” enorme e grottesco, siccome si parla di sesso e dimensioni con l’uomo che deve dimostrare la sua abilità: un padre protegge moglie e figlia occludendo gli ingressi di casa; il capo delle autorità bara a faccette pur di battere il professore; Igor va il cascamorto con la futura signora Frankenstein. Finemente questo elemento è presente anche nella terminologia: “abnormal/anormale-abnorm”.

Per esempio, la colonna sonora in un primo momento sembra extra diegetica ma successivamente si trasforma in un elemento diegetico e un peso ben specifico ai fini della narrazione, così da immettersi nei rapporti equivoci tra i personaggi. Anche il semplice campo e controcampo viene esaltato da un ritmo comico ben scandito, eccezionale nel mostrare gesti e reazioni, ripetizioni ingigantite per provocare una maggiore ilarità. Anche le voci vengono diffuse oltre la loro normale potenza dalla macchina cinema, Mel Brooks le piazza nei momenti più opportuni per dare continuità narrativa o per enfatizzare un concetto, come ad esempio il nitrito dei cavalli quando viene pronunciato il nome di Frau Blucher. Abbastanza impensabile che il verso dei cavalli possa arrivare all’udito dei personaggi una volta saliti di piano nel castello, ma questo patto tra autore e spettatore è più che lecito e oltre modo efficace. Anche il diverso posizionamento della gobba di Igor è un gioco voluto e finissimo, siccome capita che tra un’inquadratura e l’altra la segretaria o il segretario di edizione possa perdersi il verso corretto della gobba o di un oggetto qualsiasi di un film, perdendo così la continuità. Ma a volte questi errori sono impercettibili, e Mel Brooks vuole scherzarci su.

Il montaggio è “colorato”, nel senso che sprizza energie alternando transizioni varie tra cui quella a tendina, dissolvenze incrociate e altre con forme geometriche, per contrastare la patina da film degli anni ’30 con la fotografia in bianco e nero più sporcata per richiamare la materia di base: il film horror Frankenstein del 1931, diretto da James Whale. Quanti film nell’epoca contemporanea provano a emulare tecnicamente i film classici con un’estetica retro? Mel Brooks lo ha pensato già negli anni Settanta, addirittura riutilizza la stessa scenografia del laboratorio nonché gli oggetti di scena. E non solo, ne è seguito e remake nello stesso momento questo Frankenstein Junior, riuscendo nell’impresa di rispettare lo spirito “orrorifico” del film originale e dell’approccio del “Mostro” alla nuova vita. Ma non solo, è un banco di prova per gli abitanti del paesino che ha già affrontato una creatura in passato, come viene sottolineato. L’inversione di rotta avvenuta nel finale, quando per la creatura c’era il rischio di subire una vera e propria aggressione dagli abitanti, è data semplicemente dall’acquisizione della parola. Dal canto suo, Frederick Frankenstein fuoriesce dal positivismo cronico causato dalla sua glaciale razionalità e assume quella sana emotività che serve all’uomo per vivere con ardore.

Esteticamente c’è il capo delle autorità a fare il verso alla creatura a cui il giovane Frankenstein ha dato un cervello, avendo un braccio “meccanico” o comunque una protesi ben congegnata ma poco fluida. Inoltre, prende vita il valzer degli ossimori con scene esilaranti come l’incontro tra un vecchio sordo che soffre di solitudine e il “Mostro” che invece è muto e comunica per versi grotteschi; siparietto che richiama La moglie di Frankenstein (1935). Anche la scena madre tra la creatura e la bambina viene ripresa e sovvertita nel film, con una trovata mirabolante. La paura per il diverso manda nel panico la piccola comunità in Transilvania, e mentre si scorge una coppia barricarsi in casa, ecco che si ricordano di avere una figlia: la bambina è rimasta chiusa fuori, ma giocando con il “Mostro” finisce per sbaglio sul letto in camera sua dopo un volo, dando serenità ai genitori. Frankenstein Junior fa la storia del cinema per le influenze assorbite da altri autori successivamente, viene amato dal pubblico prendendo l’accezione di cult, viene così ricordato tutt’ora con grande entusiasmo e risate.

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.