Recensione – Elvis: il biopic diretto da Baz Luhrmann

La recensione di Elvis, biopic diretto da Baz Luhrmann

Elvis è un film del 2022 presentato per la prima volta Fuori Concorso al festival di Cannes e distribuito in America il 24 giugno dello stesso anno. In Italia è arrivato con 2 giorni di anticipato rispetto la distribuzione statunitense, il 22 giugno, ed è stato uno dei maggiori successi dell’anno al botteghino. Il biopic sul famoso cantante è diretto da Baz Luhrmann (Moulin Rouge!), dalla durata di 159 minuti, ed interpretato da Austin Butler, volto poco noto prima della pellicola. Le componenti musicali sono chiaramente incluse, come la maggior parte dei pezzi noti realizzati da Elvis, ma il genere di base è quello drammatico. Il resto del cast è composto da: Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, Luke Bracey, David Wenham, Kelvin Harrison Jr., Xavier Samuel, Kodi Smit-McPhee, Dacre Montgomery, Leon Ford, Kate Mulvany, Jay Chaydon, Charles Grounds, Josh McConville. Il film ha ricevuto ben 8 nomination ai premi Oscar 2023, con Butler che ha già vinto il Golden Globe. Ecco la trama e la recensione di Elvis.

La trama di Elvis, diretto da Baz Luhrmann

Il film prende il via dal racconto del Colonnello Tom Parker (Tom Hanks) mentre spiega le motivazioni per cui viene visto come il cattivo della storia a cui lo spettatore sta prestando ascolto. Incolpato dai media per la morte di Elvis (Austin Butler), si ripercorre la ricostruzione dalla sua percezione, seguendo l’ascesa e il declino di uno dei cantanti più famosi e importanti di tutta la storia statunitense.

L’inizio di carriera difficoltoso dove Elvis è incerto ma acquisisce sicurezza grazie all’amore del suo pubblico, travolto dalle mosse del cantante e dal noto ancheggiare con il quale Elvis conquistava tutti. Le influenze jazz e soul, la qualità con la quale riesce a estrapolarle dal contesto della cultura afroamericana per inglobarla in tutta America rendendola mainstream, la sua caparbietà nell’esporsi pubblicamente in difesa di certi valori quando il Paese è nei momenti più bui, rendono il cantante una figura estremamente amletica, seducente, riecheggiante, imponente.

Gli aggettivi per parlare di Elvis sarebbe forse infiniti, così come la sua influenza nella musica di tutto il mondo. La parabola della sua vita include il periodo, a metà film, del matrimonio con Priscilla e la nascita della loro bambina con la parentesi in radio e ad Hollywood. L’ultima parte invece è dedicata all’affiorare delle verità riguardanti il colonnello, Elvis ed il suo problema con le pasticche, i crolli psichici, il divorzio e la gabbia d’oro composta dall’International Hotel di Las Vegas. Infine, il 16 agosto 1977 i giornali ne annunciano la morte.

La recensione di Elvis: ben interpretato da Austin Butler, ma il film perde il brio gradualmente

Baz Luhrmann ha già diretto al cinema dei film musicali, anche piuttosto amati e di una certa rilevanza per la magniloquenza della scenografia, delle interpretazioni e delle coreografie, film dove le immagini subiscono una distorsione nevrotica restituite poi al loro pubblico in un’esaltante percezione accecante. Moulin Rouge! attraverso un tipo di montaggio perlopiù fluido e sfuggente riesce negli intenti del regista australiano, Elvis ben presto perde di brio. Come anticipato, il racconto è introdotto dalla soggettività alterata del colonnello Parker, che afferma di volersi giustificare parlando allo spettatore-pubblico del cantante. La soluzione proposta sarebbe anche interessante siccome all’inizio del film viene palesato l’intento di riflettere sull’icona Elvis raffigurato come un supereroe alla scoperta dei suoi superpoteri, in questo caso la musica. Il villain è il colonnello, colui che ha marciato sulla carriera dell’eroe per poter fare i propri interessi senza curarsi realmente di Elvis. Anche tecnicamente c’è un montaggio vorticoso, quasi liquido per come l’immagine precedente viene risucchiata dalla successiva con un filo conduttore dettato dalla forma circolare: un’iride, un disco, un’insegna, una pallottola. Le scene sono condensate di luci al neon, di spettacolarità visiva dettata anche dai movimenti di macchina staccati dallo sguardo dei personaggi presenti, e totalmente meccanici, digitalizzati, ricostruiti. Perché è di questo che si parla, di una ricostruzione iconografica. Purtroppo però, queste brillanti intuizioni restano in superfice, così come il legame di Elvis con la cultura afroamericana nel vestiario, nell’approccio, nell’ammaliante collegamento nello spirito, come se fosse stato incantato da un rito voodoo ritmato dalla malinconia del blues e dall’anarchia del jazz.

Infatti, questa libertà nella rappresentazione, una sotto specie di ribellione alla struttura tipica, finisce gravemente per contraddirsi dopo circa quaranta minuti dall’inizio. Gli effetti visivi; la patina inserita nella ricostruzione dei concerti; la claustrofobia degli spazi dettati dalle barriere sociali quali le segregazioni razziali; la seduzione di Elvis con tanto di enfatizzazione dei gesti come le urla e i pianti delle giovani fan; gli split-screen multipli per ricreare il fumetto; il montaggio per sovrapposizioni e rapide dissolvenze. Ecco l’elenco di tutti gli elementi di valore che vengono inspiegabilmente soppiantati in favore di un biopic appiattito e tremendamente classico nell’approccio, per di più superficiale nel racconto. L’effetto finale è grosso modo deludente, sembra di assistere ad un film sottoposto alla direzione di più personalità in tre blocchi. Il primo è il migliore per distacco, perché il discorso cominciato e mai terminato avrebbe sicuramente meritato una trattazione differente, e il minutaggio scorre piacevolmente per buoni 40 minuti dove si sottolineano con arguzia i conflitti interiori di Elvis. Il protagonista è un giovane diviso dall’amore per la madre con la quale ha condiviso un’infanzia difficile, le influenze della comunità che lo ha accolto e risputato fuori con il ruolo di supereroe, e infine una carriera da portare avanti nutrendosi della passione viscerale trasmessa dai fan. Il colonnello, figura dell’imbonitore alla ricerca di un fenomeno da vendere, trova pane per i suoi denti e lo valorizza con le caratteristiche gli hanno permesso di diventare un manager ricco: riuscire a rendere commerciale persino l’odio. Tuttavia, da quando la madre di Elvis muore, il film è in declino.

Elvis: un’inesorabile declino (cinematografico)

I tempi dilatati iniziano a farsi sentire dopo il citato primo blocco, e se gli amanti della sua musica possono godere delle canzoni più famose quali That’s All Right, Mama, Can’t Help Falling in Love, If I Can Dream, Hound Dog e così via, la storia del cantante diventa un elenco di fattarelli e nulla più. Infatti, qualche momento empatico qua e là con Elvis commosso e toccato per le morti del Dr. King e di Kennedy, non riesco a salvare un’abbondante ed estenuante ora di “montage”. Queste sequenze di montaggio vengono adoperate fin troppo spesso, velocizzano inutilmente il film per farci entrare quante più vicende possibili, pur non essendo un’opera volta alla copia fatta e finita, prendendosi anche qualche libertà poetica per enfatizzare alcune scelte come la vita da militare di Elvis, l’incontro di Priscilla e la dura relazione con il suo manager, il colonnello. Manca tra l’altro tutta la parte sulla Memphis Mafia, fondamentale per il colonnello Parker volendo vedere: teoricamente è lui a spiegare la storia, poteva mostrare concretamente il parassitismo di amici e familiari che hanno circondato il cantante dagli anni ’50 fino alla sua morte. Ma ecco un altro problema del film di Luhrmann, ossia il voice over del colonnello perde di valore dopo il primo blocco e non è più rilevante ascoltarlo, tant’è che il film si chiude con le classiche scritte in sovraimpressione come accade in tutti i biopic. Allora, ci si chiede, perché si è optato per un narratore-imbonitore, se poi la sua voce viene silenziata? Altra scelta piuttosto discutibile per un film che perde la sua verve in poco. La questione razziale non ha più sviluppo, viene citata qua e là nei dialoghi senza avere più centralità politica per la narrazione con i grandi nomi o vecchi amici di Elvis, come B.B. King. Elvis ha scosso l’America per l’unione culturale, musicale e fondamentalmente concreta, eppure si è scelto di togliere spazio a tale concetto per mostrare crisi. La crisi dei rapporti, sia con la moglie che con il padre, mentre la figlia è inesistente; infine, l’incrinatura portante con il colonnello Parker, l’olandese inesistente in grado di servirsi della potenza iconica di Elvis.

I media vengono citati e stracitati, ma non mostrati davvero in tutta la loro potenza: strafalcioni con sequenze di montaggio per ciò che concerne la carriera hollywoodiana di Elvis, un po’ poco per colui che sognava di diventare come James Dean, ed il fascino avrebbe potuto anche permetterglielo? Chissà, ma la riflessione non è mai portata avanti, così come l’indulgenza della stampa e la diffusione radiofonica, ridotta a qualche sovrapposizione sonora iniziale. La televisione, presente nella prima parte guarda caso, è quella più funzionale siccome è quasi dittatoriale per Elvis, lo schernisce addirittura. Il rapporto con Priscilla e la figlia che hanno è ridotto a un paio di scene, un paio di sguardi, ma nulla che possa far comprendere quanto Elvis tenga alla sua famiglia e qual è il legame instaurato. Il deterioramento del legame tra lui e il colonnello Parker è l’unico elemento piuttosto evidente, ma siccome ci si teneva a enfatizzarlo con la frase: “Lei è come un padre per me”, enunciato dal cantante nella prima parte, forse era lecito aspettarsi di più anche su quel fronte sul graduale estendersi della relazione padre-figlio/manager-artista. Ed infine, l’ultimo blocco riguarda la gabbia d’oro ricostruita dal colonnello per Elvis: l’International Hotel di Las Vegas; una struttura poderosa e luccicante che rende perfettamente il concetto visivamente, tenendo prigioniero Elvis che sogna di viaggiare in Giappone, Brasile e in tutto il resto del mondo. Ma Parker è un imbonitore, e riesce sempre ad ottenere ciò che vuole mettendo in fila un discorso convincente. Si, magari lui ci riesce, ma il film no. Ed ecco che si scade negli archetipi del biopic: il famoso o la famosa della situazione che ha problemi di droga, mostrata ovviamente superficialmente per rispettare l’ampio target che altrimenti inorridirebbe. I problemi d’esaurimento la fanno da padrone e finiscono per svilire Elvis, morto nel ’77 a causa di un arresto cardiaco dopo essere ingrassato parecchio per i farmaci presi.

Elvis: un’occasione gettata

Baz Luhrmann e la sua troupe tecnicamente non si può dire abbiano deluso, ma il film visivamente non è costante. Certo, la scenografia, il trucco e le acconciature sono delle variegate ricostruzioni, ma in passato si sono visti lavori più minuziosi come Il Grande Gatsby e lo stesso Moulin Rouge!. Standardizzare il racconto per arrivare a tutti, dopo un’illusorio incipit, è stata un scelta piuttosto codarda. L’elemento che desta il maggior interesse è il rapporto tra Elvis e i suoi fan, siccome con il suo superpotere, altra trama completamente soppiantata dalla fretta di raccontare eventi senza cognizione di causa tra l’altro, riesce a strabiliare nuovamente sul palco dell’International Hotel, emanando i già citati valori come la seduzione. Le sue mosse, il suo dono, la sua profonda voce, sono tratti unici che lo hanno contraddistinto all’epoca e tutt’oggi, ed il pubblico non poteva far a meno di ammirarlo pur vedendolo in condizioni psicofisiche piuttosto precarie rispetto all’inizio. Il contatto fisico e i baci concessi da Elvis alle ammiratrici dimostrano qui lo sviluppo: un ragazzetto vestito in modo bizzarro, diventa una tigre da palcoscenico in grado di ammaliare attraverso uno show da imbonitore senza pari: “Il più grande spettacolo sulla terra”.

Austin Butler, a differenza di Rami Malek in Bohemian Rhapsody, non lavora copiando e incollando i gesti osservando il materiale d’archivio, ma si impegna nell’infonderci la sua di personalità. Gli sguardi da “blues” e strettamente malinconici nel blu dei suoi occhi, i sorrisi ammiccati e le urla ingigantite dal vocione di Elvis cantante ma riportato nella quotidianità, come se quella passione travolgesse le corde vocali ogni qual volta il personaggio è colmo d’emozione negativa come positiva. Il resto del cast, Tom Hanks incluso, appare piuttosto sotto tono e uniforme. In conclusione, Elvis poteva essere un biopic altamente riflessivo per le questioni poste sul supereroe e i fumetti, legandole al mainstream e il pop di Elvis, imbastendo un discorso sulla cultura popolare dell’epoca e di oggi, siccome i supereroi hanno travolto la culturale popolare. La sprizzante seduzione nelle sue immagini, prima luccicanti poi ingrigite, e la narrazione assennata, si annullano poiché si è preferita la strada fin troppo classica e farraginosa dei biopic convenzionali. La superficialità, però, difficilmente la si perdona se a disposizione si hanno 159 minuti.

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.