Recensione – Pinocchio di Guillermo del Toro: il nuovo film in stop motion su Netflix

Pinocchio di Guillermo del Toro recensione del film in stop motion su Netflix

Pinocchio di Guillermo del Toro è il nuovo film del regista messicano, che torna a collaborare con Netflix a seguito della realizzazione della serie Cabinet of Curiosities, inclusa sulla piattaforma di streaming. Dopo una rapida e contenuta distribuzione al cinema del film in stop motion, l’adattamento di Pinocchio è stato incluso sul servizio a partire dal 9 dicembre 2022 su Netflix, ottenendo immediatamente l’attenzione di numerosi fan e spettatori del prodotto in questione. Indipendentemente da giudizi morali, a proposito della collaborazione del regista con Netflix e della scarsa copertura cinematografica del prodotto, Pinocchio di Guillermo del Toro è un capolavoro che sa riadattare, in modo originale, lucido e deltoriano, la storia di Carlo Collodi, portandola su binari cari al regista e sapendo offrire – a partire dal contorno della storia in sé – una splendida disamina del tema del fascismo e della guerra, oltre che un’analisi pregevole dei temi della vita e della morte, oltre che della perdita e dell’elaborazione del lutto. Ecco tutto ciò che c’è da sapere a proposito della trama e della recensione di Pinocchio di Guillermo del Toro.

La trama di Pinocchio di Guillermo del Toro

Negli anni della guerra, in una cittadina italiana non specificata, Geppetto è un falegname apprezzato dalla comunità per il suo impegno incondizionato e per il suo perfezionismo, che gli permette di realizzare opere di estrema fattura. L’uomo è in compagnia di suo figlio Carlo, che perde a seguito di un bombardamento casuale che colpisce la chiesa della città, uccidendo il bambino; da questo momento in poi, Geppetto si lascia andare all’alcol e smette di produrre opere, lasciando il crocifisso della sua città incompiuto. Durante una serata in preda alla tristezza, il falegname abbatte il pino in cui abitava Sebastian il Grillo e da lì crea un bambino di legno; durante la notte, lo Spirito del Bosco – generalmente impassibile rispetto al destino dei protagonisti – dona la vita al legno di Pino, creando Pinocchio.

La recensione di Pinocchio di Guillermo del Toro

Dopo aver trattato il tema della guerra in La spina del diavolo e Il labirinto del Fauno, Guillermo del Toro chiude un’ideale trilogia con Pinocchio, opera in stop motion presente su Netflix che non perde nulla – né dal punto di vista narrativo, né in quanto ad allegorie – rispetto a quei contorni precedentemente menzionati; la rappresentazione di Pinocchio continua a servirsi della guerra non soltanto per realizzare un prodotto estremamente politico, ma per rendere concreto, tangibile quel contesto da cui ogni narrazione muove. Quando fu interrogato a proposito della sua opera più celebre, la Guernica, a Picasso fu chiesto se fosse stato proprio lui, il maestro, a creare quell’orrore. “No, l’avete fatto voi”, rispose l’artista, che aveva realizzato l’opera più brutale e in grado di raccogliere la sciagura della guerra in immagini simboliche spezzate, degradanti e in preda ad un delirante disfacimento della carne.

Pinocchio di Guillermo del Toro muove dagli stessi intenti: riesce a creare una rappresentazione in cui la guerra è viva, così come il suo significato politico, non soltanto per mezzo dei numerosi slogan fascisti e degli innumerevoli saluti romani presenti all’interno del film, ma anche e soprattutto attraverso l’orrore – simbolico, e non solo – rappresentato all’interno del film. Un prodotto in cui il significato politico non resta mai confinato, ma diventa anzi parte della vita dei protagonisti e, di riflesso, degli spettatori. Ognuno dei personaggi qui rappresentati (tra cui lo stesso Pinocchio) non è “pulito”: è pieno di rughe, ferite, segni che non dovrebbero esserci, dai caratteri grotteschi e quasi caricaturali, in preda cioè a quell’orrore che soltanto la guerra può restituire al mondo, non creando differenza tra fazioni e non guardando in alcun modo a vincitori e vinci.

L’idea, assolutamente riuscita, è quella di realizzare un prodotto estremamente formale; di cui, cioè, la forma non sia soltanto un accessorio, ma il passepartout per una comprensione globale del prodotto, che non passi per mezzo delle sole parole. Il protagonista di questo film, dunque, non è più quell’impianto morale che Carlo Collodi ha voluto inserire all’interno della sua narrazione, quanto più il lusus naturae, espressione che viene fatta pronunciare al Conte Volpe (Christoph Waltz): lo scherzo della natura, il diverso, il debole che deve essere schiacciato, l’emarginato sociale a cui tendere la mano soltanto per ricordargli quanto infima sia la sua condizione, l’essere umano la cui virilità non emerge per mezzo di frasi urlate e colpi di pistola destinati all’altro, l’uomo indisciplinato e libero. Pinocchio di Guillermo del Toro non è soltanto un’opera antifascista perché deride Mussolini, ma anche e soprattutto perché permette di superare – per la prima volta – quel “credere, obbedire, combattere” che era stato proprio anche del senso più intrinseco dell’opera di Carlo Collodi: qui mentire salva la vita ai protagonisti, disobbedire diventa un gioco per scoprire se stessi, rinunciare alla guerra tra simili è il più grande atto di autoaffermazione di Lucignolo, personaggio che vive finalmente in un’opera capace di presentarlo per il dissidente che è, non necessariamente per un malvagio a cui muovere ignominia.

I temi trattati all’interno dell’opera di Guillermo del Toro

Quel che accade, accade. E infine ce ne andiamo.

Sebastian il Grillo (Ewan McGregor), Pinocchio di Guillermo del Toro

Superato quell’ostacolo della rappresentazione tradizionale dell’opera che, in fin dei conti, vuole insegnare ai bambini ad obbedire (pena un naso che cresce e sciagure nel corpo di un pescecane), il Pinocchio di Guillermo del Toro guadagna grandissimo spazio per l’inserimento di tematiche che non si risolvono soltanto nella considerazione della guerra e nella sua rappresentazione. Pinocchio è un’opera che permette di riflettere a proposito dei temi della perdita, della vita e della morte. Per la prima volta la creazione del burattino di legno ha un senso altro: il superamento della perdita, che ha reso Geppetto l’uomo debole che metabolizza la morte di suo figlio Carlo attraverso l’alcol e l’abbandono; il dono della vita, che avviene grazie all’azione dello Spirito del bosco (il marchio di fabbrica deltoriano, un essere sovrannaturale tutto occhi che ricorda la rappresentazione degli angeli così come viene offerta nella Bibbia), permette di creare un essere che renderà esteriori tutti quei temi che vogliono essere tipici del regista messicano.

Il protagonista del film non diventerà mai il bambino in carne e ossa a cui si è stati abituati nelle trasposizioni animate: la sua umanità sarà conquistata attraverso la morte, l’elaborazione del lutto e il superamento della perdita; temi che qui diventano fondamentali, sia nella resa del Geppetto (ammonito da Sebastian il Grillo a proposito del suo confronto con il bambino, che lo ama incondizionatamente per quel che è e non per quello che idealmente potrebbe essere), sia nel percorso ineluttabile della morte che vede Pinocchio, ogni volta, confrontarsi con la sorella dello Spirito del Bosco; lo scherzo dell’eternità – per quanto possa apparire felice – è vivere la perdita di tutti gli altri, consapevoli che questo scarto differenzia chi è umano da chi non lo è. Un gioco del destino, a volerla semplificare in questi termini, incredibile per il regista che, nei suoi numerosi anni in cui ha potuto concepire e finalmente realizzare l’opera, ha perso i suoi genitori sapendo restituire quello stesso dolore allo spettatore.

Il film, non a caso, si permette anche un epilogo rispetto all’opera originale; la delicatezza attraverso la quale vengono affrontate le morti di Geppetto e di Sebastian, il narratore, è estrema, così come il garbo che permette di chiudere l’opera con una frase che saprà diventare iconica in breve tempo.

Il Benito Mussolini di Guillermo del Toro e il Benzino Napaloni di Charlie Chaplin

Gradisco i burattini!

Benito Mussolini (Tom Kenny), Pinocchio di Guillermo del Toro

Il momento più iconico del film in stop motion di Guillermo del Toro è il pubblico ludibrio che Benito Mussolini subisce da parte di Pinocchio, in grado di rappresentare il suo “dolce” attraverso continui movimenti intestinali che ne esaltino il carattere ridicolo. Il Benito Mussolini di Guillermo del Toro arriva a seguito di una serie di gesti, parole e comportamenti – da parte dei protagonisti – in grado di sottolineare quanto vuoto sia quell’intero impianto simbolico che appartiene al fascismo, sia nella sua gestualità che nella sua comunicazione. Per questo motivo, i continui slogan presenti sugli edifici della città rappresentata lasciano costantemente spazio agli striscioni del Conte Volpe, che pubblicizza i suoi show in tutta Italia; il saluto romano tra i personaggi, invece, si risolve in una serie di mosse goffe (una bicicletta che cade, un pennello che viene lanciato per sbaglio verso il Podestà) che ridicolizzano quel gesto, mostrandolo per quel che è: un movimento privo di un reale valore, da umiliare ogni volta con una gag slapstick e con un gesto che possa suscitare il riso dello spettatore.

Il Benito Mussolini basso, tarchiato e incapace di scendere dalla sua enorme limousine – ha bisogno di una persona che lo sollevi e lo metta a terra – ricorda molto da vicino quella rappresentazione di Benzino Napaloni che Charlie Chaplin aveva introdotto all’interno del suo Il grande dittatore: un personaggio ridicolo, dalla spiccata cadenza romagnola nell’adattamento italiano, che mangia spaghetti e viene messo a sedere su uno sgabello piuttosto basso, per percepire quel rapporto di verticalità con il suo avversario Hynkel. All’interno del film di Chaplin, che apre la strada verso quell’idea di ridicolizzare goffamente il fascismo al fine di rappresentarlo per quel che è, le scelte sono analoghe: all’ufficiale Shultz che gli dice “Pensavo tu fossi ariano”, il barbiere interpretato dal regista risponde con “Sono vegetariano”. In fondo, la considerazione del male sta nella connotazione di chi percepisce: personaggi che sembrano enormi, mostruosi e violenti diventano, in due opere di così tanto grande importanza politica, sterili macchiette da schernire, uomini svuotati di senso.

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Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.