This Must Be The Place: Paolo Sorrentino e il senso dell’abbandono (Recensione)

This Must Be The Place: Paolo Sorrentino e il senso dell'abbandono (Recensione)

L’ultimo lavoro cinematografico di Paolo Sorrentino, E’ stata la mano di Dio in uscita su Netflix il 15 dicembre del 2021, rappresenta sicuramente un passo ulteriore verso la scoperta della summa registica di Paolo Sorrentino, uno dei nomi che hanno contribuito a rendere migliore e rappresentativa la cinematografia italiana. Il film in questione permette, senza troppi indugi, di scavare a fondo nell’introspezione del regista italiano, che ha realizzato lavori di grandissimo valore nel corso della sua carriera, approfondendo – come pochi altri – il senso dell’umano e del miserabile. Non a caso, i grandi lavori del regista riflettono su alcuni aspetti esistenzialisti che trovano una profonda analisi sul grande schermo e che, per questo motivo, portano a un trionfo soprattutto estetico, in assenza di ogni altro meccanismo interpretativo che potrebbe prevalere. In tal senso, se si ha bisogno di un assaggio piuttosto gustoso della pietanza Sorrentino, in attesa del piatto principale del suo menù, This Must Be The Place del 2011 rappresenta un elemento considerevole, che merita di essere oggetto di considerazione.

Il road movie alla Sorrentino: un senso di mancanza

Se c’è qualcosa che difficilmente potrebbe essere concepito, se si parla della regia di Paolo Sorrentino, sicuramente si potrebbe far riferimento al genere del road movie. Il motivo non è da identificare in un discorso di natura tecnica, dal momento che le competenze sicuramente non mancano al regista che ha dimostrato di potersi rapportare a più materie, mai sfigurando nella sua regia. Allo stesso tempo, però, gli elementi più significativi della regia di Paolo Sorrentino vivono negli spazi stretti: le inquadrature in primo piano, i dettagli decontestualizzati ma emblematici, i significati nascosti in ogni oggetto comune, la sospensione e l’assenza di movimento sono, da sempre, elementi cardine nella filmografia del regista.

Con This Must Be The Place, Sorrentino riesce ad affrontare con grande maestria il genere del road movie attraverso una prospettiva sicuramente ribaltata, che non fa a meno del manierismo dell’inquadratura classica sorrentiniana e che, attraverso una rimasticatura di grandi regie che hanno fatto la storia del cinema, permette di creare uno spettacolo estetico certamente importante. Non originale, non inedito e non eccezionale, sia chiaro, ma sicuramente importante. Non si può parlare di uno spettacolo da 10 in pagella per una serie di elementi che appaiono fortemente decontestualizzati rispetto al meccanismo classico del cinema a cui si è abituati, in cui ogni realtà vive – per effetti di eccentricità – in un contesto fortemente caotico, eppur coerente: rapportandosi ad una materia inedita come il genere del road movie, però, Paolo Sorrentino ha l’esigenza del dover raccontare, necessità che raramente vede in Sorrentino un grande estimatore e interprete. Il risultato è importante, si diceva, dal momento che gli elementi sembrano essere ordinati (al di là di qualche grossolanità) perfettamente all’interno della scena; nulla in più, tuttavia, dal momento che quel trionfo tecnico e fotografico che si osserva in ogni pellicola di Sorrentino sembra mancare, più che in altri lavori, in maniera preponderante all’interno di questa pellicola.

Il senso dell’abbandono di This Must Be The Place

Se dal punto di vista tecnico This Must Be The Place sembra manchevole di qualche dettaglio, che possa far pensare alla filmografia di Paolo Sorrentino in modo particolarmente emblematico, è nel racconto della pellicola che si ritrova il regista, impegnato in una delle costruzioni personali e umane più intense e curiose che possano essere osservate nel suo cinema. Il suo Cheyenne, interpretato in modo molto convincente da Sean Penn, è un personaggio che vive continuamente di altalenanti percezioni, oltre che di sensazioni che difficilmente possono essere incanalate verso un’unica pista. E’ il pregio di una pellicola che, a differenza di molti altri film di Paolo Sorrentino, non vive di una certa unicità, ma di atteggiamenti biunivoci che si identificano nella costruzione in due parti del film.

La “sezione irlandese” di This Must Be The Place è il puro classicismo sorrentiniano: la noia come fonte di sussistenza quotidiana, il cedere al ritmo forzato dell’umanità per sfuggire necessariamente dal proprio timore, l’interessante natura delle cose futili, il disgusto per il superfluo, l’altezzosità dei protagonisti di Sorrentino rispetto al mondo che li circonda; e ancora il de contemptu mundi, che da sempre alimenta ogni pellicola del regista italiano, si palesa perfettamente in quella frase che Cheyenne ripete per ben tre volte nella sua pellicola: “Qualcosa mi ha disturbato. Non so cosa, ma qualcosa mi ha disturbato”. E’ nel volgere verso la “sezione statunitense” che, però, il film si anima e si arricchisce di elementi qualitativi che non si è abituati a osservare nel cinema di Sorrentino: il regista cerca di tornare ossessivamente, in alcuni attimi, al centro di gravità della sua cinematografia, ma comprende benissimo che la portata del suo lavoro vive di un’estensione sicuramente maggiore, e non vi rinuncia.

Per questo motivo, gli elementi come il concerto di David Byrne, il cane con il collare elisabettiano, il monologo del nazista finale osservato da tre inquadrature e tanto altri attimi di questo tipo controbilanciano momenti di pura evasione, come la punizione inferta al nazista sopracitato (costretto a camminare nudo sulla neve), il dialogo con l’inventore delle valigie con rotelle o l’attesa alla finestra in una delle scene finali. In un equilibrio particolare, che vive attraverso delle spinte irrazionali che non sono care al cinema di Sorrentino, This Must Be The Place celebra un tema che fine tratteggiato, a tratti addirittura graffiato, all’interno del film: l’abbandono. Come sottolineato in una delle narrazione del prodotto, ci sono tanti modi di morire, e uno di questi è vivendo. La vita di Cheyenne è una continua ombra di attese disilluse, ricordi sbiaditi e un passato mormorante, che il protagonista ammette soltanto nel corso del suo viaggio in tutta verità: nessuna parte di quella gloria che gli è riconosciuta è reale, dal momento che inseguire la moda, la tendenza e la statistica è un semplice gioco al rialzo che non lascerà alcuna traccia nella storia, se non offuscata.

Il protagonista, ad un certo punto della storia, evade: abbandona l’Irlanda, la sua storia, i suoi affetti e abitudini, la noia del gioco di borsa e le aspirazioni di chi lo vorrebbe vedere ancora una rockstar; è abbandono anche quello del nazista, che vive costantemente sotto l’egida di una confortevole vendetta per un’umiliazione inferta e che, per questo motivo, lascia ogni cosa, alla ricerca di un modo per essere trovato. E’ abbandono, infine, quello che alla fine del film vede lo stesso Cheyenne svestire i panni della rockstar che fu.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.