Recensione – Babylon: il nuovo film di Damien Chazelle

La recensione di Babylon, l'ultimo film girato da Chazelle

Babylon è finalmente sbarcato anche nelle sale cinematografiche italiane il 19 gennaio 2023, ma la distribuzione globale era già partita a dicembre in America, preannunciando il flop dell’ultima fatica di Damien Chazelle. Il regista di Whiplash e La La Land ha ritratto la sua personale Babilonia, facendo riferimento all’antica Hollywood del passaggio dal cinema muto a quello sonoro. Il cast corale è composto da Margot Robbie, Brad Pitt, Diego Calva, Jovan Adepo, Olivia Wilde, Samara Weaving, Li Jun Li, Jean Smart, Tobey Maguire, Max Minghella, Katherine Waterston, Eric Roberts, Phoebe Tonkin, Flea, Jennifer Grant, Jeff Garlin, Lukas Haas, Spike Jonze, P.J. Byrne, Rory Scovel. La durata è da vero e proprio kolossal: 183 minuti; il budget per girare la pellicola si aggira attorno agli 80 milioni di dollari, ma sembra che abbia sfiorato anche i 100. Di seguito la trama e la recensione del nuovo film di Damien Chazelle: Babylon.

La trama di Babylon, l’ultima fatica di Damien Chazelle

Babylon, l’ultima fatica di Damien Chazelle, è ambientato nella Los Angeles del 1926, l’Epoca d’Oro di Hollywood, dove vige la sregolatezza, l’esuberanza le folli ambizioni che sembrano possano diventare realtà da un momento all’altro. Ma è anche il momento della rivoluzione per il cinema americano, con il passaggio dai film muti a quelli sonori, provocando l’ascesa di nuove star e segnando la rovina di attori e attrici appartenenti ormai al passato.


Le vicende personali e professionali dei quattro protagonisti principali, frutto dell’inventiva del regista, iniziano il loro percorso nel ’26 per culminare nel 1952: c’è Manny Torres (Diego Calva), un aspirante attore ispano-americano che all’inizio si deve accontentare di un lavoro da assistente sul set; Jack Conrad (Brad Pitt), un famoso attore, tra i più pagati a Hollywood e noto per la sua vita privata sregolata: tra feste e divorzi, sembra improvvisamente preoccupato dall’arrivo dal sonoro, che mette a repentagli i suoi piano, con il rischio di stroncargli la carriera; la travolgente Nellie LaRoy (Margot Robbie), destinata a diventare una stella dall’oggi all’indomani. Per lei la vita dovrebbe essere un party senza fine. Il quarto protagonista principale di questa storia è Sidney Palmer (Jovan Adepo) un giovane trombettista jazz che ha l’opportunità di iniziare una carriera nel cinema, quando i musicisti vengono ripresi come veri e propri attori delle pellicole hollywoodiane, e sarà proprio un’intuizione geniale di uno dei personaggi sopracitati a metterlo sul palcoscenico.


Intorno a loro ruotano diversi personaggi, a partire da Elinor St. John (Jean Smart), una giornalista specializzata in cronaca scandalistica senza peli sulla lingua; James McKay (Tobey Maguire) un gangster tossicodipendente in cerca di gloria con una sua personalissima idea di cinema; Fay Zhu (Li Jun Li), attrice e cantante spesso protagonista delle sfavillanti serate hollywoodiane; Irving Thalberg (Max Minghella), uno dei più noti produttori cinematografici degli anni ’20 e ’30, unico personaggio del film realmente esistito.

La recensione di Babylon: un “mappazzone” con capo, ma senza coda

Una filmografia breve ma intensa quella di Damien Chazelle, regista che ha saputo dire la sua ad appena 38 anni stabilendo anche il record per essere stato il più giovane ad aggiudicarsi l’Oscar nella categoria Miglior regia. Dopo Whiplash, La La Land e First Man, si torna in carreggiata con un film incentrato sulla Hollywood sfarzosa, barocca e scintillante degli anni ’20, in particolare concentrandosi sul passaggio dal cinema muto a quello sonora a dimostrazione del declino post rivoluzione delle star. Ma se con La La Land Chazelle era riuscito a rinnovare il cinema regalando al pubblico il musical della nuova generazione, omaggiando e facendo suo un genere classico come solo un maestro avrebbe saputo fare, con Babylon sfortunatamente c’è un netto passo indietro in diversi aspetti. Gli ostacoli dei recenti film per quanto riguarda la messa in scena e l’utilizzo delle immagini, molto spesso, sono rappresentati dalla mancanza di cognizione in favore di percorsi al limite dell’onanismo, soppiantando la riflessione e il linguaggio stesso impiegati per una futili provocazioni. Un gioco che allo spettatore contemporaneo non sta troppo dispiacendo, ma se davvero basta così poco per poter gridare al clamoroso avvento della nuova era cinematografica, significa che si è giunti alla conclusione del cinema così come lo conosciamo. I didascalismi prendono il posto delle immagini nel racconto, e quest’ultime sono sfruttate a soli scopi dimostrativi, un’esile specchietto per le allodole. Chazelle, rispetto però ai suoi colleghi emergenti, ha incanalato il suo amore per quest’arte in canoni perfettamente bilanciati tra la tradizione e gli stilemi tipicamente postmoderni, con delle modalità ossequiose, propositive e raggianti. La consapevolezza miracolosamente matura vista fin, sfoggiata con saviezza dal regista nella sua breve ma voluminosa − in termini contenutistici − carriera, si sfilaccia e perde mordente nella melensa narrazione di Babylon. Il nuovo film di Damien Chazelle è un prolungamento deforme di La La Land, con lo scopo di raccontare il declino di un cinema morto anteriormente al sogno che aveva preso vita nel musical con Ryan Gosling ed Emma Stone.

Non ci si crede che lo stesso autore visto in precedenza sia caduto in tentazione, banalizzando dei discorsi meta cinematografici già di per sé derivativi. Babylon parte benissimo, illude chi guarda, poiché ci si ritrova di fronte l’amplificazione, la dilatazione, l’esasperazione della Hollywood degli anni ’20 con un’ouverture che allude direttamente, senza troppi indugi, alla metafora triviale: è tutto sterco di elefante ciò che verrà. Di fatto, i primi 30 minuti che consistono nella presentazione dei vari personaggi le cui storie verranno indistricabilmente legate tra loro, accennano alla sfolgorante e colorata festa delle star del cinema americano, e il regista non si risparmia dal muovere nevroticamente la macchina da presa lasciandola trasportare all’incredibile numero di comparse tra le fastose scenografie della villa. La danza è irresistibile; il sudore, il desiderio, la passione e le iperboliche attinenze tra i presenti, trasportano lo spettatore in un’enfatico tripudio di corpi. Chazelle ha sin da subito dimostrato l’amore sfrenato per il jazz, e non si esime anche in questa occasione di perdersi tra i musicisti della festa, sobbalzando verso le trombe per poi essere come rigettato nella folla esaltata. Il piano sequenza, le panoramiche a schiaffo, il montaggio sincopato e vistosamente barocco anche nel sonoro, con tagli netti spiazzanti e la colonna sonora firmata ancora una volta da Justin Hurwitz che non si risparmia dall’avvolgere le musiche in un vortice di melodie tribali, travolgenti, martellanti e per certi versi orchestrali. Costruzione e decostruzione della mondanità, attraverso una complessa cooperazione tra suoni e immagini, nell’intento di raccontare personaggi sfrenati e sognatori, anche ingenuamente volgari come nel caso di Nellie LaRoy. Questo elettrizzante incipit culmina con l’alba portatrice di atmosfere maggiormente pacate, offrendo un attimo di respiro dalla spropositata notte, come avviene in La Dolce Vita di Fellini, qui palesemente citato. La magia sembra ancora proseguire: Chazelle porta lo spettatore in giro per i set del cinema muto in scenografie terrose, improvvisate, artigianali, e continua con il nevrotico movimento di una macchina da presa mossa a mano, immersa nei dialoghi sovrapposti e rapidi, spesso confusi per il desiderio di primeggiare da parte di chi è in scena. Le panoramiche a schiaffo sono una scelta stilistica insistita, a dimostrazione della caotica rappresentazione, perché caotica è la materia da cui il regista trae la sua linfa vitale. Il montaggio barocco inizia ad essere estenuante, ma viene retto dall’inizio della commedia grottesca per le assurdità messe in scena.

La comicità inizia a farsi spazio in modo così dirompente da voler rompere in un certo senso la quarta parete per giocare con lo spettatore, unendo l’extradiegetico con il diegetico a più riprese. E fin qui, l’intento di mostrare come la magia del cinema possa far passare l’ubriacatura, ai limiti dei coniati di vomito, di Jack Conrad, è una maniera per certi versi parodistica che funziona e trattiene in sé una sua particolarità. L’ottima scelta di mostrare una regista donna − perché già all’epoca dirigevano ed è giusto chiarirlo − che scopre il talento emergere della LaRoy, viene unita tramite l’esasperante montaggio alternato alle urla del regista uomo in preda all’agonia di dover tenere sotto controllo un protagonista ubriaco, una decina di cineprese rotte, e un cospicuo numero di comparse inizialmente desiderose di ribellarsi con violenza. Inoltre, c’era da tener in considerazione la fine della giornata, a fronte di un budget redatto minuziosamente e che non poteva essere sprecato con il calar del sole. Allora ecco che la fretta ne aumenta il ritmo già di per sé indiavolato, per poi risaltare l’emozione del bacio finale tra Conrad e un’attrice, come a voler spedire una lettera d’amore nostalgica. Arriva il successo, ma con esso anche la rivoluzione: si passa dal cinema muto a quello sonoro, ed è l’inizio del declino. Incredibile, però, che la discesa avvenga anche per la qualità di Babylon stesso. Infatti, dopo l’ultimo sprazzo di commedia grottesca nel mostrare la troupe e Nellie LaRoy alle prese con il rumore da catturare perfettamente, c’è l’ultima risata prima dell’affondo nell’abisso. D’ora in avanti, il nuovo film di Chazelle si pone per un’ora e mezza come un “mappazzone” inutile che non sa come gestire le sovrabbondanti citazioni, la vacuità di personaggi che non hanno altro da dire, e il mix di generi disorientante.

Babylon: ovvero come perdere il controllo

Babylon diventa colmo di citazioni, a partire dalla paura di essere dimenticati posta nella Gloria Swanson di Viale del Tramonto diretto da Billy Wilder. Infatti, dopo l’inizio felliniano c’è una sconcertante riproposizione di assiomi già dati per assodato grazie ai capolavori del passati tra cui anche, e fin troppo abbondantemente, Cantando sotto la pioggia. Chazelle non si nasconde dietro un dito, lo afferma a caratteri cubitali di essere stato segnato dai dialoghi meta cinematografici e dalla brillante, geniale e storica rappresentazione nel musical del 1952. Il problema principale è che nei 183 minuti del suo nuovo film, almeno 100 li utilizza per mostrare la sua passione per un singolo film, riprendendo di pari passo le conversazioni sul cinema, in quanto arte di serie B, ed il teatro, in quanto arte di serie A, e sull’illusione degli attori di restare per sempre nell’immaginario collettivo raggiungendo l’immortalità, al pari dei fantasmi. I dialoghi di Babylon diventano melensi, didascalicamente scarichi e per questo si finisce per banalizzare concetti già espressi 70 anni fa. C’è una scena in particolare che è davvero vuota: Conrad, LaRoy e Manny Torres si incrociano in un party fin troppo sobrio per i loro gusti, e lo rigettano fisicamente: l’attrice in declino prima racconta una rozza barzelletta, poi si ingozza, e poi vomita come in un qualsiasi film di Scary Movie. La delusione prende posto dopo aver costatato che la speranza di star vedendo un altro grande film firmato dal giovane e prodigioso Chazelle, è stata in realtà malriposta nonostante una bellissima colonna sonora e delle interpretazioni di livello. Un autore che ha finora trovato grande equilibrio sia nella sceneggiatura, comprese di battute, che nella trasudante passione trasmessa delle immagini, qui finisce per perdersi non sapendo bene cosa dire. Il regista non riesce nell’intento di circoscrivere delle regole favolistiche come il collega Tarantino nel suo personale C’era una volta a Hollywood, non pretende nemmeno di riproporre fedelmente ciò che avvenne in quell’epoca e non tratta aspetti biografici particolari come Fincher nel suo Mank, tanto meno ha la possibilità di immettere elementi autobiografici come di recente ha fatto il maestro Spielberg. E allora, la domanda sorge spontanea: cosa voleva fare esattamente Chazelle?

Purtroppo la risposta non è data saperla, e dopo una sinistra parentesi sulle deformità “circensi” di Los Angeles spedite letteralmente, riprendendo fedelmente la battuta di James McKay: “nel suo buco del culo”, quindi in una grotta profonda tre piani metaforicamente infernali, la follia ha preso vita. Il “vecchio” è morto definitivamente sancendo la fuoriuscita del nuovo, rispendendo figure non armoniche in una tomba demoniaca. La malinconia, infatti, è presente anche per la deformazione delle note di Someone in the crowd, perché qui quel qualcuno nella folla che in La La Land era un sogno, è stato trasfigurato e reso incubo. Ebbene, a che pro in particolare? Da ammirare la vitalità del duo Chazelle-Hurwitz, sodalizio producente; ma non era necessario dover ricorrere a trovate estetiche riportate molteplici volte, dove su tutti stona il barocco del montaggio parallelo. Insomma, si assiste a 100 minuti di didascalie, di mescolanza di generi come il noir e il gangster movie nella parte finale, di ridondanti affermazioni sull’immortalità nell’arte e sul “poter fare di più con il cinema” perché ci si sente in dover di offrire al popolo più di uno svago per ripararsi dalla deprimente realtà. Il finale giunge, ma è composto dall’unione di elementi quanto più sgraziati possibili, incespicanti e assolutamente ineleganti: un filmato dove si fa un sunto, con immagini, di tutta la storia del cinema, da Mèlies a Jurassic Park, dall’avanguardia dadaista ad Avatar. In pratica si tratta di un progetto universitario presentato al docente per diletto. Ed ancora riproposizioni, questa volta di immagini vissute da Manny Torres, che dopo essere diventato un produttore caduto in miseria, ritorna a Los Angeles per guardare Cantando sotto la pioggia al cinema, e ricordando la festa iniziale da cui tutto è partito illudendolo, per poi terminare in un pianto disilluso e nostalgico. Si chiude il sipario con la macchina da presa che risale dal buio della sala mostrando le differenti reazioni del pubblico a quanto appena visto, dopo un altro, ennesimo e avvilente montaggio alternato con i ricordi (riproposti come immagini simil-avanguardiste) di Manny. Quel cinema non c’è più, ma Babylon esattamente cosa voleva dire più di questo?

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.