Thor: Love and Thunder tra (troppi) eccessi e sprazzi di genio: recensione del film di Taika Waititi

Thor: Love and Thunder tra (troppi) eccessi e sprazzi di genio: recensione del film di Taika Waititi

Era il film Marvel più atteso dell’anno, il prodotto cinematografico da cui ci si aspettava di più – sotto diversi punti di vista – e il lavoro che più aveva generato polemiche, ancor prima di essere distribuito all’interno delle sale cinematografiche. Se c’è un aspetto che anima la figura di Thor, all’interno del Marvel Cinematic Universe, è la sua capacità di far discutere e litigare i fan Marvel, creando due diverse schiere: i puristi che non ne hanno mai apprezzato le fattezze (se non, minimamente, all’interno dei due primi film) e coloro che hanno particolarmente amato la rivisitazione di un personaggio completamente diverso rispetto ai fumetti. Thor: Love and Thunder, secondo film della saga che vede la regia di Taika Waititi, porta alle estreme conseguenze questo processo, quasi noncurante del fatto che la strada, ormai, intrapresa risulta essere irreversibile. Ecco, dunque, tutto ciò che c’è da sapere a proposito di quel continuamente oscillante equilibrio che c’è tra eccessi e sprazzi di genio, all’interno di una pellicola particolarmente discussa.

Il Thor che non è più Thor

Si parte, senza alcun dubbio, dalla nota più dolente per molti fan della Marvel, e per tutti quegli estimatori del Dio del Tuono, che si sono ritrovati di fronte ad un’estremizzazione di un concetto già osservato e perseguito nel corso degli anni: Thor non è più Thor; o meglio, non è più quel personaggio che poteva essere atteso dopo la realizzazione del primo film, oltre che a seguito della lettura dei fumetti ispirati alla mitologia norrena. Al riparo da qualsiasi considerazione relativa all’effettiva giustezza di questa scelta, c’è da dire che – se è vero che Taika Waititi ha avuto un suo preminente ruolo nel modificare particolarmente la caratterizzazione del supereroe – la radicale trasformazione del personaggio ha sue ragioni storiche, etiche ed economiche, che meritano di essere spiegate.

La scelta di Taika Waititi e la trasformazione del personaggio

Il primo punto è, chiaramente, relativo alla scelta di un regista come il neozelandese: gli estimatori del Marvel Cinematic Universe sanno degli scontri tra Kevin Feige e Sam Raimi, a proposito del film Doctor Strange nel Multiverso della Follia; in sintesi, il capo della Marvel osteggiava alcune delle scelte di Sam Raimi (soprattutto relative ai “suoi” primi piani) mentre, dal suo canto, il regista opponeva una certa maestria nel realizzare certe tipologie di inquadratura, che fanno sicuramente parte del suo repertorio. Il risultato: quelle inquadrature, nonostante le iniziali polemiche, sono state inserite all’interno del film che – sceneggiatura a parte – appare un ottimo prodotto superbamente diretto. Il discorso è semplice: a meno che non ci si serva di addetti ai lavori feticci, pronti ad essere controllati nella maggior parte delle loro scelte, la conseguenza a cui si va incontro (nello scegliere nomi importanti) è un’estrema personalizzazione del prodotto, soprattutto per quel che concerne il suo linguaggio, la sua estetica e i suoi tecnicismi, indipendentemente dal fatto che questo stesso sia inserito all’interno di un discorso di saga o di linearità cronologica, cinematografica e contenutistica.

Scegliere Taika Waititi (dunque, non esattamente il nome di un regista pacato) vuol dire automaticamente aspettarsi un atteggiamento eccentrico, illuminato e geniale – cioè, esattamente ciò che la Marvel voleva dopo il flop del personaggio di Thor dopo i primi due film – ma, allo stesso tempo, anche scelte discutibili, non sempre comprensibili e, in molti punti, contestabili. In questi casi, quindi, si accetta semplicemente l’intero pacchetto: Waititi è il regista che ha ridicolizzato Hitler facendogli mangiare la testa di un unicorno, che ha fatto litigare dei vampiri a proposito di chi dovesse lavare i piatti e che ha trasformato il Dio del Tuono in un autentico stand up comedian cazzaro da gag “facilotte”, impianti comici ripetuti e battute che strappano una risata piuttosto attesa. A questo punto, ci si potrebbe opporre dicendo che a non tutti il nuovo Thor fa ridere e che non è giusto che un personaggio di tale calibro debba diventare necessariamente ironico, ma si rientra pur sempre nello stesso canone di personalizzazione: innanzitutto, ciò che vale per un singolo spettatore non è il riflesso dell’intera percezione collettiva; in secondo luogo, che piaccia o meno, è lo stile di un regista scelto proprio per questo motivo.

Risollevare un personaggio in fallimento

Al di là del discorso relativo alla regia, c’è da fare un ulteriore appunto, che riguarda quelle questioni che precedentemente venivano considerate come economiche: la quarta fase del Marvel Cinematic Universe è un insieme di prodotti innovativi, sperimentali e ottenuti per mezzo del coinvolgimento di un target completamente diverso rispetto a quello che La saga dell’Infinito aveva fidelizzato; se con le prime tre fasi del MCU era stato possibile osservare l’avvento, il consolidamento e il definitivo disfacimento della maggior parte dei personaggi amati dagli spettatori, non ci si poteva certamente aspettare che dalla quarta fase in poi ci fosse un’eccessiva intensificazione di nuove narrazioni.

Il ragionamento è semplice: con 2/3 dei protagonisti che nei film sono morti, invecchiati o usciti di scena, c’è bisogno di una nuova base, ottenuta dalla preesistenza di alcuni supereroi (Thor, Doctor Strange, Wanda) e dall’emergere di nuove narrazioni. Per questo motivo, è di per sé sbagliato pensare che ogni nuovo film debba essere portatore di una storia che non sia – in questo momento del MCU – fine a se stessa, con una sua narrazione e logica di costrutto. Se si hanno in memoria gli ultimi prodotti della Saga dell’Infinito il confronto appare marcato, ma per giungere a quelle tipologie di narrazione c’è stato bisogno di attendere quasi un decennio, confrontandosi anche con prodotti non esattamente degni di grande considerazione e stima. Se Thor, così come pochi altri, ha continuato la sua carriera all’interno dell’Universo Marvel, è pur giusto che la sua caratterizzazione muti nel corso degli anni, pur di non andare incontro ad un eccessivo appiattimento del personaggio. C’è da dire, comunque, che il suo personaggio era già stato mutato a partire dall’insuccesso della sua storia – oltre che della sua personalizzazione – ottenuta a margine dei due primi film.

In particolar modo il secondo prodotto cinematografico, Thor: The Dark World, aveva fatto pensare a un tramonto definito del Dio del Tuono. Lo stesso regista del primo film, Kenneth Branagh, aveva accolto la possibilità di una nuova pellicola con queste parole:  “Questa è un po’ una novità per me. Quello che vorrei dire è che sono entusiasta e loro sono quelli fiduciosi. Dovrò aspettare il pubblico per dirvi se ce ne sarà una seconda, e poi se questa è una piacevole conversazione avuta fra tutti noi, sarebbe emozionante. Ma penso di avere in me anche troppo sangue irlandese superstizioso per pensare che Thor 2 potrà essere prodotto, ma se è Marvel a dirlo penso che possa accadere”. In altre parole: non c’era più nulla da raccontare dopo il primo film e, ovviamente, dopo il secondo la percezione era ancor più marcata. Cambiare le consuetudini, gli atteggiamenti e la personalità di Thor significa aver salvato il personaggio, assicurandosi una condotta mantenuta anche negli Avengers (il Thor grasso e malandato in Endgame ne è la perfetta dimostrazione) e qualche film in più.

La gestione dei personaggi in Thor: Love and Thunder

Così come ogni film Marvel che si rispetti, anche Thor: Love and Thunder si serve di un cast incredibilmente ricco di nomi e personalità importanti nel mondo del cinema; in un certo senso, Taika Waititi e la Marvel hanno confermato una tendenza che non solo appartiene al MCU da sempre, ma che rispecchia anche le modalità di fruizione cinematografica degli ultimi anni, in cui i super cast sembrano essere quasi gli unici a muovere il pubblico verso la sala. Anche in questo caso, però, c’è da fare un ulteriore considerazione: gli ultimi prodotti cinematografici realizzati con questo spirito (The French Dispatch, Dune, Don’t Look Up, The Last Duel, Nighmare Alley, Il potere del cane) muovono da un presupposto di coralità o di compresenza degli attori all’interno del cast, in grado di dimostrare (anche nelle scene in cui gli attori recitano in meno di un minuto, come avviene in The French Dispatch) l’effettiva importanza – tecnica e carismatica, non soltanto dettata dal presupposto di “inserire un nome X importante all’interno del film per costruire numeri” – di un attore all’interno della pellicola. In Thor: Love and Thunder questo processo sembra venir meno, in una composizione complessiva che, in alcuni punti, appare quasi frettolosa e ingiustificata.

I personaggi che funzionano perfettamente all’interno di Thor: Love and Thunder

Si inizia, senza dubbio, con i personaggi che hanno meglio funzionato all’interno di Thor: Love and Thunder. Si tratta di due nomi da cui ci si aspettava sicuramente una grande prestazione e che, in effetti, non hanno deluso nelle loro prestazioni: Natalie Portman e Christian Bale. Per quel che concerne l’attrice, che ha ripreso il ruolo di Jane Foster all’interno del film, c’è da dire che ci si poteva aspettare francamente di tutto, soprattutto in virtù del fatto che il suo ruolo all’interno della saga sembrava essere definitivamente tramontato; l’attrice non voleva più fare ritorno in Thor, a meno che il suo personaggio non subisse una radicale trasformazione, acquisendo valore; detto fatto, con una doppia caratterizzazione che sicuramente aveva bisogno di un buon talento per essere resa: non solo Jane Foster è diventata Potere Thor, acquisendo il controllo del Mjolnir perché degna, ma ha anche un cancro, il che restituisce una grande dignità umana ad un personaggio che si rischiava fosse troppo piatto nelle sue definizioni.

Tuttavia, c’è qualcosa che ha fatto storcere il naso anche in questo senso: se la caratterizzazione del personaggio di Potete Thor convince, soprattutto per il valore carismatico di Natalie Portman nella sua interpretazione, non si può dire lo stesso dell’ambito personale, dettato dalla narrazione del cancro: complice, forse, una durata troppo ristretta, si approfondisce poco questo momento, relegandolo a semplice elemento di raccordo tra umanità e divinità del personaggio di Jane Foster; per questo motivo, anche quando lo spettatore dovrebbe fermarsi a riflettere a proposito della condizione di una persona ormai prossima alla morte (una morte assolutamente attesa, rispetto a quella che potrebbe esserci in battaglia, per come il cancro al quarto stadio di Jane Foster viene indicato), la sensazione è quella di non riuscire a prendere troppo sul serio ciò che viene spiegato.

Diverso il discorso per quel che concerne il personaggio di Gorr, il macellatore di Dei che – per quanto sia abbastanza recente nei fumetti Marvel – ha già trovato collocazione nel MCU. La scelta di Christian Bale, che ha interpretato il villain, era stata accolta non soltanto da grandi aspettative, ma anche da un atteggiamento disfattista, da parte degli addetti ai lavori: se è vero che nella Marvel i grandi attori hanno sempre recitato, anche in ruoli minori, (Samuel L. Jackson nel ruolo di Nick Fury ed Anthony Hopkins nel ruolo di Odino, ad esempio), negli ultimi anni la tendenza si era intensificata, portando alcuni nomi (tra i tanti, Harry Styles, Charlize Theron, Angelina Jolie) ad accettare anche ruoli marginali, pur di avere spazio all’interno delle produzioni Marvel. Con Christian Bale il ruolo non è assolutamente secondario, così come l’interpretazione dell’attore, che certo non aveva bisogno di Thor: Love and Thunder per dimostrare il suo grande valore.

Non si fa fatica a definire Gorr come il miglior villain nella saga di Thor e, in un certo senso, crea dispiacere sapere che sia stato presente solo all’interno di un unico film. Gorr viene bene introdotto nelle fasi iniziali del film, con scene iniziali che spiegano la sua storia e le sue motivazioni, ed è ben gestito per tutta la pellicola, grazie a momenti in cui riesce a comunicare perfettamente attraverso la funzione del monologo, che destina migliore spazio alle capacità di Christian Bale all’interno della pellicola. Di sicuro, dunque, tutti gli elementi funzionano perfettamente, riuscendo a conferire anche una grande dignità finale al personaggio che – di fronte alla possibilità di scegliere qualsiasi cosa – decide di far rivivere sua figlia, sacrificando il suo progetto di vendetta.

Personaggi di Thor: Love and Thunder che potevano (anche) non essere inseriti

Accanto a un’ottima trattazione dei due personaggi principali, non si può non sottolineare anche una gestione pessima di alcuni attori sul grande schermo, a dimostrazione del fatto che il super cast di Thor: Love and Thunder non ha funzionato a dovere. Si inizia con il ruolo di Valchiria, interpretata da Tessa Thompson: scelta da Thor come regina di New Asgaard, Valchiria appare un personaggio incredibilmente compassato, privo di spirito, mordente, oltre che di un reale ed effettivo senso all’interno della pellicola. La sensazione che si avverte è quella di una delusione, dettata dalle oggettive capacità di Tessa Thompson e dalle potenzialità di un personaggio che in molti chiedono sia protagonista di un prodotto (film o miniserie) a lei dedicato.

Tuttavia, il ruolo di Valchiria all’interno del film diretto da Taika Waititi è pressoché nullo: il personaggio sembra essere il semplice piedistallo delle narrazioni di Thor e Jane, oltre che un intermezzo tra una scena e l’altra; ruolo che, tra l’altro, è interpretato dallo stesso Taika Waititi, che impersona il gladiatore di Sakaar, Korg. Per quanto riguarda quest’ultimo, infatti, funzionano sia l’impianto della narrazione che spiega e riassume alcuni momenti della storia di Thor, sia gli intermezzi comici che alleggeriscono la (già leggera) trama del film. Ciò che rimane di Valchiria è, dunque, pochissimo, e se il personaggio non fosse stato presente all’interno del film, nessuno ne avrebbe reclamato la presenza. Stesso dicasi anche di Matt Damon, Sam Neill e Luke Hemsworth, il trio di attori che nel film impersonano i tre attori di uno spettacolo teatrale, come già osservato anche in Thor: Ragnarok: se nel caso del primo dei due film di Taika Waititi l’approccio poteva apparire intelligente e parodistico (dato il calibro dei tre attori), nella seconda pellicola appare sicuramente come una ridondante ripetizione che non riesce a suscitare riso negli spettatori.

Ultima nota stonata riguarda il personaggio di Zeus, interpretato da Russell Crowe: la scelta di includere l’Olimpo (nel film chiamato Omnipotence City) appare particolarmente priva di valore, a meno che la prima delle due scene post-credit non abbia un effettivo valore in termini di continuità futura; in particolar modo, infatti, sembra essere soltanto oggetto di una narrazione particolarmente scarna a proposito dei concetti di lussuria e agiatezza che interessano la trattazione tradizionale delle divinità. Russell Crowe, nel suo ruolo di Zeus, personifica perfettamente una scelta più che semplicemente discutibile, che non aggiunge niente alla trama e che offre – forse troppo maldestramente – soltanto il destro per introdurre una nuova arma, il fulmine, all’interno della pellicola.

Gli elementi degni di nota e quelli perfettamente evitabili del nuovo film su Thor

La panoramica di Thor: Love and Thunder si conclude con un’ultima analisi, riguardante quegli elementi che animano la pellicola e che permettono di dare un giudizio definitivo al lavoro di Taika Waititi. In particolar modo, se – in un certo senso – c’è la possibilità di intravedere degli sprazzi di genialità in alcune scelte, soprattutto di natura estetica, allo stesso tempo molti elementi appaiono completamente sconnessi con la realtà di riferimento che, per questo motivo, appare sicuramente appiattita e tronfia in molti dei suoi aspetti. Da apprezzare è sicuramente la colonna sonora curata da Michael Giacchino, un addetto ai lavori che non ha bisogno di presentazioni e che – servendosi di alcune delle realizzazioni più importanti nella carriera dei Guns N’ Roses – ha creato una connessione sicuramente molto importante con il lavoro di Taika Waititi. Anche in questo caso, così come per quel che concerne le scelte di regia, la colonna sonora appare un marchio di fabbrica del regista neozelandese, che aveva già condotto un lavoro simile per Thor: Ragnarok e che prosegue, dunque, con una tendenza di “cromatizzazione” dei suoi prodotti cinematografici, ricchi di colore, estetismi sfrenati ed esagerazioni artistiche.

Per quanto in molti, tra gli addetti ai lavori, abbiano ritenuto l’ironia di Thor: Love and Thunder eccessiva, non la si considera allo stesso modo in questa sede: è praticamente certo che il target di questo film sia molto più basso, per fattori anagrafici, rispetto a quello di altri prodotti cinematografici del MCU, ma la scelta non è sicuramente da condannare, sulla base delle premesse di una casa di produzione che già con altri lavori (come Mrs. Marvel) aveva chiarito la sua volontà di avvicinare anche i più piccoli. L’ironia colorata, i temi – forse troppo velocemente bollati come “politicamente corretto” – trattati e l’ispirazione a pellicole più infantili sono tutti presupposti che animano questa scelta e che, sostanzialmente, creano un prodotto molto leggero, foriero di temi morali e impostato, volutamente, in maniera simil-pedagogica. Il rischio, osservato in questo film, è che questo processo risulti essere smodato anche in momenti della pellicola in cui ci sarebbe bisogno di riflessione, maggior concentrazione e umorismo in luogo di facile ironia; così, come già detto, il cancro di Jane appare un’opportunità mancata di far riflettere sul tema della caducità della vita, l’addio di Thor ai Guardiani della Galassia è troppo frettoloso (oltre che condotto male) e l’omosessualità dei due padri di Korg appare inspiegabile, considerato che – nei vecchi film – il guerriero aveva spiegato di avere un padre e una madre.

Capitolo a parte è interessato dal tema dei buchi di trama, immaginabili (ma mai giustificabili) in un percorso cinematografico molto vasto: la presenza di Eternità, che può esaudire ogni desiderio possibile da parte della prima persona che riuscirà a parlarvi, perché non ha interessato Thanos nel suo progetto di dimezzare l’intero universo? Perché gli Avengers non se ne sono serviti per sconfiggere il loro nemico, evitando di tornare indietro nel tempo? Perché ognuno degli eroi Marvel non ha mai pensato alla possibilità di esaudire il suo più recondito desiderio (una vita felice con la propria famiglia per Wanda, la mancata distruzione del suo popolo per Thor, la risurrezione di Iron Man da parte di Pepper)? La spiegazione potrebbe essere ricercata in tante possibili attenuanti del caso, che sicuramente funzionerebbero, ma è indizio di un percorso di scrittura – anche in questo caso di Taika Waititi, che ha avuto più libertà nella realizzazione della sceneggiatura – non del tutto ottimale.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.