Lo chiamavano Jeeg Robot: vincere la sfida contro un budget limitato (Recensione)

Lo chiamavano Jeeg Robot: vincere la sfida contro un budget limitato (Recensione)

Quando Lo chiamavano Jeeg Robot è stato distribuito, nel 2015, del film e di Gabriele Mainetti si parlò come di un grande esordio alla regia per il regista, attore, compositore e produttore romano. Quanto alla stagione cinematografica italiana, invece, si sottolineò come il film, distribuito nello stesso anno di Suburra e Non essere cattivo e pochi mesi prima di Perfetti sconosciuti, potesse rappresentare una grande occasione di riscatto e, soprattutto, di una volontà di proporre un nuovo tipo di cinema. A distanza di anni, il tessuto cinematografico italiano è definito ancora da una serie di sperimentazioni narrative – si può guardare a Dampyr e alla volontà di creare un Bonelli Cinematic Universe -, che tentano di proporre un modo differente di fare cinema; Mainetti, invece, ha fatto seguire al suo brillante esordio il solo Freaks Out, distribuito nel 2021. Ma Lo chiamavano Jeeg Robot è davvero il film che venne così tanto entusiasticamente descritto? Vale la pena considerarlo all’interno di una recensione del primo film di Gabriele Mainetti.

La trama di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti

Lo chiamavano Jeeg Robot inizia con una ripresa aerea della città di Roma, che mostra il protagonista del film – Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) – scappare dalla polizia per il furto di un’orologio; per salvarsi, l’uomo si getta nel Tevere, ma viene a contatto con sostanze radioattive che lo lasciano tremante, in preda alla febbre e alla nausea. Dopo una notte passata in uno stato pessimo, il ladruncolo si risveglia con un ottimo stato di salute, e decide di intascare i soldi dalla vendita del suo orologio. Qui viene a contatto con la banda dello Zingaro (Luca Marinetti), capo di un gruppo di uomini apparentemente senza un ordine; uno di questi, Sergio, propone ad Enzo di svolgere un altro lavoro: recuperare la cocaina che due etiopi hanno ingerito in ovuli; durante il lavoro, Enzo Ceccotti viene a contatto con Alessia (Ilenia Pastorelli), la figlia dell’uomo che – dopo aver perso la madre – appare in un pessimo stato mentale, confondendo continuamente la realtà con quella dell’anime Jeeg Robot d’acciaio, di cui è appassionata.

Una telefonata durante il lavoro distrae Sergio, che viene ucciso da uno dei due etiopi (l’overdose perché l’ovulo si apre inavvertitamente). Anche Enzo viene colpito mortalmente ma, a seguito di un colpo di pistola e un volo da 9 piani, sopravvive ed è illeso: scopre così di aver sviluppato una forza incredibile e di essere invulnerabile. Quando la banda dello Zingaro inizia a molestare Alessia, perché non ha ancora ricevuto la cocaina che le permetterebbe di entrare in contatto con il clan di Scampia, Enzo Ceccotti irrompe sulla scena travestito e protegge la ragazza, scagliandosi contro gli uomini armati. Alessia, nell’osservare Enzo mascherato, lo chiama allora Hiroshi Shiba. Intanto Enzo, che aveva sfruttato i suoi superpoteri per rapinare uno sportello automatico, inizia a diventare un fenomeno del web e – dopo aver lasciato la ragazza in una casa-famiglia – intensifica il suo rapporto con Alessia, avendo scoperto dapprima delle violenze sessuali da lei subite, poi portando la ragazza al Luna Park. Quando, in un camerino, lei lo bacia, Enzo decide di avere un rapporto sessuale con lei, che subisce passivamente.

A seguito dell’accaduto e avendo scoperto della morte del padre, Alessia decide di lasciare definitivamente Enzo che, però, blocca un tram a mani nude per scusarsi con la ragazza: qui alcuni video dei presenti identificano l’uomo che – non più mascherato – viene riconosciuto anche dallo Zingaro. Quest’ultimo, nei problemi con il clan di Scampia per il mancato denaro derivante dalla cocaina, si fa prestare il denaro da un transessuale chiamato Marcellone: durante un rapporto sessuale tra i due, i napoletani colpiscono quest’ultimo, che risponde al fuoco uccidendo tutti i familiari, meno che Nunzia Lo Cosimo, capoclan. Lo Zingaro decide di scoprire da dove derivino i superpoteri di Enzo: dopo aver scoperto il suo nascondiglio, lo seda e si fa indicare l’origine dei poteri misteriosi dell’uomo, che svela al suo avversario la posizione dei rifiuti radioattivi nel Tevere.

I due vengono raggiunti da Nunzia che, con nuovi collaboratori, ferisce mortalmente Alessia (che muore tra le braccia di Enzo, chiedendogli di fare del bene con i suoi poteri) e lo Zingaro, che si getta nel Tevere per salvarsi. Da qui, nonostante le fiamme e i colpi di arma da fuoco, riemergerà sfigurato ma illeso; la sua vendetta, filmata in un video, porta a uccidere tutti gli esponenti della famiglia Lo Cosimo. Il suo sogno, però, resta quello di far saltare in aria lo stadio Olimpico durante il derby; Enzo, dopo aver salvato una bambina a seguito di un incidente stradale, si rende conto di poter fare del bene e decide di sventare l’attentato, scontrandosi con lo Zingaro con i superpoteri. Alla fine dello scontro, Enzo decide di saltare in aria con lo Zingaro nel Tevere per salvare tutti gli altri ma, mentre il secondo viene decapitato dalla bomba, il primo sopravvive. Alla fine del film, in cima al Colosseo, decide finalmente di fare del bene, indossando la maschera di Jeeg Robot che gli era stata cucita proprio da Alessia.

Recensione di Lo chiamavano Jeeg Robot: un film che vuole essere più di ciò che può

Lo chiamavano Jeeg Robot è un film ambizioso, sotto tutti i punti di vista; un prodotto che parte – fin dalla prima scena, con ripresa aerea della città di Roma accompagnata dalla corsa di Claudio Santamaria per le strade della Capitale – attraverso un tono che mira ad essere anticonvenzionale e che, allo stesso tempo, si distacchi da quei canoni rappresentativi tipici del fare cinema in Italia. Un montaggio serrato e riprese che osano (anche attraverso piani sequenza presenti in diversi momenti del film) sono le caratteristiche di una pellicola che cerca di introdurre un qualcosa di nuovo nell’ambito della cinematografia italiana contemporanea.

Il tutto si traduce in una duplice sfida, che il film riesce a vincere: da un lato, proporre un prodotto che – dal soggetto fino alle tipologie di ripresa che vogliono essere effettuate – avrebbe necessitato di un budget assolutamente maggiore rispetto ai 1.7 milioni investiti; in secondo luogo, evitare di riproporre modelli tipici della cinematografia americana, da cui il prodotto sicuramente attinge, attraverso la creazione di un impianto tutto italiano che – per quanto stringa l’occhio a produzioni straniere – risulta essere ricco di elementi nostrani: dal cinema supereroistico al noir, passando per i continui rimandi a produzioni anime e di fantasia, oltre che il sempreverde gangster, che arricchiscono l’intera pellicola.

Nell’ambito dell’intero film, il fattor comune è determinato dalla voglia di sorprendere, che permette di evadere da quegli schemi convenzionali di cinematografia in atti a cui si potrebbe essere abituati nel contesto nostrano: per questo motivo, il supereroe che scopre di essere tale vive la sua redenzione soltanto alla fine del film, a seguito di un continuo dubbio che genera l’ambiguità nel protagonista della pellicola; piuttosto, il primo atto di chi scopre di essere invulnerabile e dotato di gran forza è quello di svaligiare una banca, rubando uno sportello automatico. Anche qui la nuova sorpresa, dal momento che quello stesso supereroe – che tale non è, se non per un accidente casuale – è ignaro del fatto che il denaro viene macchiato irreversibilmente, dunque inutilizzabile.

Medesimi ritmi narrativi si osservano anche in altri punti della pellicola: la sparatoria con Marcellone sembra risolversi con lo scherzo che il clan di Scampia (con mozzarella e minaccia di morte tra le fiamme) fa allo Zingaro; il transessuale con lui presente, però, non è morto e uccide tutti, meno che Nunzia, e lo Zingaro – di fronte al “sono stata brava?” di Marcellone – spara a chi gli aveva appena salvato la vita. Il gusto macabro di Gabriele Mainetti sta nel divertirsi stupendo costantemente, generando continui colpi di scena fino ad annullare la portata tipica del plot twist, giungendo cioè ad un punto della pellicola in cui ci si può aspettare francamente di tutto. E’ la piena sospensione dell’incredulità, in barba a chi vorrebbe – e ha voluto – una maggiore fedeltà nella rappresentazione di una polizia forse troppo inerme nei confronti delle azioni del protagonista. Di un protagonista che, per inciso, trascende dai caratteri umani non soltanto nella forza e nella brutalità, ma anche nella rappresentazione delle sue azioni, palesemente al di fuori del comune, pur essendo integrate in quella comunità romana che si vuole costantemente rappresentare per mezzo di dialetti, strade sporche e tifosi.

La brutalità e la voglia di sangue presente all’interno del film

Pensa se je famo scoppia’ quarcosa de speciale, che ne so, tipo er Parlamento o l’Olimpico durante Roma-Lazio! Famo er botto più grosso de tutti i botti, de tutti i bengala, de tutti i derby, de tutta la storia der calcio italiano!

Zingaro (Luca Marinelli)

Lo chiamavano Jeeg Robot non è certamente esente da errori: la seconda parte del film mostra una sceneggiatura particolarmente stanca, che persegue con il suo tira e molla con l’ambiguità del carattere anti-eroico del protagonista (quando è chiaro a tutti quale sarà la deriva, positiva, del personaggio) e volendo, a tutti i costi, generare la contrapposizione tra un bene e un male sullo schermo di cui non si avrebbe, ad essere pignoli, neanche troppo bisogno. La contrapposizione tra Enzo e lo Zingaro è certamente funzionale al finale, ma non restituisce quel senso di moralità di cui vorrebbe essere portavoce: Jeeg Robot è e resterà nell’animo un ladruncolo romano a cui sono capitati casualmente dei poteri; gli stessi che lo Zingaro, che trova nel sogno di riscatto e successo la sua ossessione, ricerca maniacalmente, servendosene in maniera ancor più fiera e spettacolare rispetto al suo avversario. Alcune scene, come l’esplosione dell’auto alle spalle mentre Enzo si allontana con la bambina, sono il classico cliché all’italiana da cui sembra non ci si riesca ad allontanare mai del tutto.

In effetti, il vero pregio della pellicola sta nella rappresentazione di quei caratteri che sono, per l’appunto, poco italiani: ben lungi da quella sterile polemica che identificherebbe – in ciò che è italiano – tutto ciò che è sbagliato, quel che si vuole sottolineare, in questo caso, è la voglia di osare e di evadere da quella rappresentazione che apparirebbe comoda, studiata, consolidata nei suoi caratteri. La rappresentazione brutale della violenza nella pellicola, invece, fa un passo in più: una delle scene iniziali, con il cranio di Pinocchio spaccato convulsamente da un cellulare dallo Zingaro (che poi chiede al suo collaboratore di comprargliene uno nero) è di pregevole fattura, sia per la cieca e folle crudeltà restituita sullo schermo, sia per la creazione di premesse che non vengono disattese nel corso del film. Lo stesso Zingaro, ad esempio, è colui che frantuma le ossa di Nunzia in un abbraccio, quando ha già assunto i suoi superpoteri, e la grande qualità della scena sta proprio – ancora una volta – nella contrapposizione tra l’ironica e ballerina follia del personaggio con il rumore di ossa che si spezzano, togliendo la vita ad una persona. Quando il film imbecca queste strade, quando cioè mostra crudelmente ciò che racconta (non lasciandosi andare in didascalismi che priverebbero di tono patetico la pellicola) il progetto funziona. Non a caso, Lo chiamavano Jeeg Robot è piaciuto anche all’estero anche e soprattutto per questi motivi.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.