Locke: un buon esercizio di stile di Steven Knight con Tom Hardy (Recensione)

Locke recensione film Steven Knight

Presentato fuori concorso alla 70ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Locke ha goduto – nel corso degli anni – di un vasto apprezzamento critico, in grado di tessere lodi, naturalmente, per Steven Knight e per l’unico attore di cui si potesse dir qualcosa sul grande schermo. Tom Hardy. Spesso incensato per la sua sceneggiatura e per il tono particolarmente claustrofobico della pellicola, non c’è dubbio che Locke rappresenti un prodotto che fonda il suo essere su una buona idea, in grado di concretizzarsi attraverso un esercizio di stile sicuramente più che dignitoso. Nel pensiero e nel gusto di chi scrive, però, servirsi di una sola idea (perché di un solo elemento, ripetuto per 85 minuti, si parla) per giustificare la forse troppo sensazionalistica etichetta di “capolavoro”, recata al film del 2013, appare piuttosto limitante. Per comprendere ciò che si vuole intendere, vale la pena prendere in considerazione la recensione di Locke.

La trama di Locke, il film di Steven Knight con Tom Hardy

Ivan Locke (Tom Hardy) è un uomo la cui vita è raccontata attraverso l’espediente di un viaggio in auto, dalla durata di un’ora e mezzo, durante la quale il protagonista effettua diverse telefonate a colleghi di lavoro, famiglia e non solo. Si scopre immediatamente che l’uomo è diretto a Londra, per un evento non immediatamente chiarito: in virtù di questa urgenza, non potrà essere presente all’evento più importante di sempre per il suo lavoro; si tratta, infatti, di un capocantiere che dovrebbe sorvegliare la più grossa colata di cemento, per la costruzione di un palazzo mastodontico commissionato direttamente da Chicago. Ivan Locke decide, dunque, di affidarsi a Donal (Andrew Scott), che ritiene essere il meno peggio rispetto agli operai che gestisce, ma subito si vede attaccato da Gareth (Ben Daniels), che lo licenzia dopo dieci anni di lavoro a seguito della sua assenza durante un evento così importante.

Presto si scopre che Ivan ha una famiglia: i suoi figli, Sean (Bill Millner) ed Eddie (Tom Holland) lo aspettano a casa come ogni sera, volendo osservare un importante match di calcio insieme al padre, così come la moglie Katrina (Ruth Wilson); Ivan, però, sta raggiungendo Bethan (Olivia Colman), a cui sta nascendo un bambino di cui Ivan è il padre: nel corso del viaggio in auto, infatti, si scopre che Ivan Locke ha avuto un rapporto con la donna, conosciuta un anno e mezzo prima a seguito di un grande successo al cantiere e, a seguito di una sbornia, ha commesso l’atto. L’uomo rivela tutto a sua moglie, che gli chiede perché non sia di ritorno a casa, e quest’ultima inizia dapprima a soffrire, poi ad accusarlo, infine decide di non permettergli più di tornare. Intanto, Bethan sta partorendo e – per una complicazione – dovrà farlo con parto cesareo; Ivan, nel bel mezzo del viaggio, decide di gestire tutti gli incarichi del lavoro di capocantiere, benché sia stato licenziato, con la collaborazione di un Donal ubriaco e sempre più scoraggiato.

Durante il suo viaggio, emerge un altro tratto della personalità di Ivan Locke: è figlio di un uomo che l’ha abbandonato e a cui dedica, di tanto in tanto, alcune accuse, cercando di rendere la propria vita migliore rispetto a quella che il padre gli abbia donato. Alla fine del film, una telefonata del film prima – che gli racconta il terzo gol della propria squadra del cuore e lo aspetta a casa, nonostante abbia captato la difficoltà tra i due genitori – e la nascita del figlio poi, di cui sente il primo vagito, gli ridà speranza.

Recensione di Locke: un esercizio di stile e poco di più

Chi approccia a Locke sa, un po’ perché il film è particolarmente datato ed è stato possibile saperne di più, un po’ perché è stato pubblicizzato esattamente attraverso questi intenti, quale sia il carattere che dominerà all’interno degli 85 minuti della pellicola scritta e diretta da Steven Knight: il prodotto si serve di un solo attore, accompagnato dalle voci di alcuni doppiatori, che recita durante l’intero film; il tutto si svolge solo ed esclusivamente all’interno di un’automobile, che fa da set del prodotto. Sulla base di queste considerazioni, il film dovrebbe assumere tutt’altro sapore, dettato dal riconoscimento di un grande valore del regista e dell’attore, che riescono a portare avanti un film nonostante le premesse generali. In effetti così è stato nella maggior parte dei commenti e delle recensioni che sono state realizzate a proposito del prodotto cinematografico in questione, volte ad enfatizzare i caratteri riusciti di una sceneggiatura sicuramente potente.

C’è, però, da fare due appunti: il primo riguarda la summenzionata potenza narrativa del contenuto, che – a dire il vero – risulta essere anche piuttosto svilita in alcuni punti della pellicola. Considerando che il film dura 85 minuti, non si tratta sicuramente di un buon segnale: è evidente che, benché il lavoro sia portato a termine in maniera dignitosa e che l’idea di fondo sia funzionale al lavoro che si svuole svolgere, il potenziale del film si esaurisca in pochissimi minuti, essendo chiaro il finale verso cui il prodotto vuole muoversi ed essendo anche piuttosto “telefonati” (ed è una battuta di pessimo gusto) i dialoghi che iniziano ad esserci nella seconda metà del film. Di più, l’intero carattere dello stesso appare particolarmente forzato sia in molti dei suoi punti, sia in diverse scelte che il protagonista opera nel corso del film.

Il secondo elemento, però, è quello che più giustifica il motivo per cui il film non si ritiene un estremo capolavoro come lo si descrive spesso: di film che si servono di un solo set, di una sola scenografia o di una rappresentazione claustrofobica ne esistono parecchi, e Locke non è sicuramente il primo che utilizza una formula di questo genere. Pescando nel cinema di Quentin Tarantino, vengono in mente addirittura tre prodotti: Le Iene, Django Unchained, The Hateful Eight (quest’ultimo successivo a Locke, essendo stato distribuito nel 2015); in tutti e tre i film, sebbene l’obiettivo del film non sia quello di dimostrare quanto si è bravi nel proporre un’idea di claustrofobia, l’intero impianto narrativo funziona attraverso la presenza di un solo set (o di pochissimi set, di cui uno dominante). Citando proprio l’ultimo dei tre, The Hateful Eight, è emblematica la scelta di spostare i protagonisti della pellicola da uno spazio chiuso – la carrozza – ad un altro spazio chiuso – l’emporio -, dove si svolge la maggior parte delle azioni. In questo caso, la direzione dell’azione è straordinaria, riesce a sfruttare ogni centimetro di spazio in maniera egregia, riempiendo il set non soltanto di sangue e violenza, ma anche di una maestria nel governare ogni movimento e ogni immagine.

Nell’automobile di Locke, il tutto si traduce in un insieme di telefonate: sia chiaro che, da parte di chi scrive, non c’è il biasimo per un film che si risolve attraverso chiamate che determinano la vita di un individuo (lo si ribadisce, l’idea è buona così come il suo esercizio) ma, francamente, non si riesce davvero a comprendere come un’idea non originale, sfruttata dignitosamente con il minor impiego possibile di risorse e focalizzando ogni elemento narrativo su un insieme di voci e poche, pochissime, espressioni di Tom Hardy, possa essere etichettato come un capolavoro. Piuttosto, lo si può citare per quel che che è: un buon esercizio di stile che nulla dà e tutto toglie, intrattenendo come può.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.