Recensione − Avatar: La Via dell’Acqua

La recensione di Avatar: La Via dell'Acqua, sequel distribuito a distanza di 13 anni dal primo capitolo. Scritto e diretto da James Cameron

Avatar: La Via dell’Acqua è un film di genere fantascientifico scritto e diretto da James Cameron, con Sam Worthington e Zoe Saldana. Distribuito al cinema il 14 dicembre 2022, da Walt Disney Studios Motion Pictures; la durata è di 190 minuti. Sequel del film campione d’incassi, Avatar, del 2009. Del cast fanno parte i nuovi arrivati Kate Winslet, Edie Falco, Michelle Yeoh e Vin Diesel che raggiungono i protagonisti già visti nel primo film Stephen Lang, Sigourney Weaver, Joel David Moore, Matt Gerald e Giovanni Ribisi. Il budget è più alto del primo capitolo, rispettivamente è di 250 milioni e di 237 milioni. Di seguito la trama e la recensione del film.

La trama di Avatar: La Via dell’Acqua, sequel scritto e diretto da James Cameron

Ambientato più di dieci anni dopo gli eventi del primo film, i due protagonisti Jake Sully (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana) sono ancora insieme e con figli al seguito, pronti a esplorare lo sconfinato mondo di Pandora e ad affrontare nuovi conflitti con l’umanità. La coppia si troverà inoltre a fare i conti con i problemi coniugali, legati all’educazione dei propri figli.

Tra i nuovi personaggi c’è Jack Champion, si tratta di Javier “Spider” Socorro. Spider è nato a Hell’s Gate, la base umana su Pandora vista nel primo film, ma è stato salvato e adottato da Jake e Neytiri, che lo hanno fatto diventare un membro della loro famiglia con i figli Na’vi Neteyam (Jamie Flatters), Lo’ak (Britain Dalton), Tuktirey (Trinity Bliss) e Kiri, figlia concepita misteriosamente dal corpo dell’avatar della dottoressa Augustin.

Minacciata dall’umanità, la famiglia Sully si trova costretta a lasciare la foresta, data l’invasione guidata da un gruppo di marine che prendono possesso di corpi da avatar, così da potersi confondere tra i Na’vi e la fauna locale. L’obiettivo è catturare e vendicarsi di Jake, considerato il traditore della sua specie. Per provare a sfuggire al nemico, la famiglia espatria nelle isole, dove si trova la tribù dei Metkayina.

La recensione di Avatar: La Via dell’Acqua, un nuovo world building immersivo

James Cameron torna dopo 13 anni dietro la macchina da presa per ampliare il mondo a cui ha dato origine nell’ormai lontano 2009: Pandora. Questa volta, a trovare spazio, sarà l’oceano e le isole abitati dai Metkayina. La flora e la fauna presentati nel capitolo precedente, vengono mostrati nelle prime sequenze per poi essere sostituiti dagli Ilu e dagli Skimwing, creature d’acqua connesse agli Avatar di questa imponente pellicola. Anche il nuovo popolo di cui si viene a conoscenza hanno un’estetica differente: sono verde acqua e non più blu, con delle membrane ad unire le quattro dita delle mani per facilitare e velocizzare i movimenti subacquei. La chiusura delle palpebre è simile a quella degli anfibi, ed il corpo più robusto. Il loro rapporto con la natura circostante è come quella della tribù della foresta, solo che qui subentrano i giganteschi Tulkun − analoghi a delle balene − con i quali i Na’vi instaurano un rapporto di fratellanza/sorellanza. Ogni Tulkun ha la sua storia, la sua specialità − come i canti − ed è in grado di comunicare con la popolazione, poiché dotato di sopraffina intelligenza, nonché sensibilità. Il materiale che si ritrovano nell’enorme cervello, è estremamente costoso perché arresta la vecchiaia degli esseri umani, ed i cacciatori lo sanno.

Il nuovo world building proposto da Cameron è semplicemente eccellente, anche se sono ripresi meccanismi narrativi simili al primo film, capaci di differenziarsi per il rinnovamento della tematica ecologista, qui espansa al mare e alla cura degli amici marini considerati propri pari; dell’accettazione del diverso, con i Sully visti come degli alieni, dei mostri mezzo sangue con cinque dita invece che quattro. L’importanza del veicolare questo messaggio sancisce una novità, perché non è un essere umano che si affeziona e accoglie in sé nuovi costumi e una nuova cultura, ma giovani della stessa specie che dimostrano un’apertura nei confronti dei bisognosi. In questo caso la famiglia Sully è obbligata a lasciare la propria casa, e nel farlo assume le sembianze di profughi in cerca di un nuovo habitat. L’immigrazione risulta sempre attuale, ed è fondamentale che a prendere il timone della pellicola sono i figli più dei padri: la nuova generazione, subendo le colpe di quelle vecchie, deve farsi carico delle sorti del pianeta salvando anche i propri genitori. D’altronde la comunicazione tra il vecchio e il nuovo, oggi giorno, non può cessare d’esserci, e la rappresentazione di una famiglia vecchio stampo in Avatar funge da contenitore per il rinnovamento. Alla fine i padri vengono salvati nonostante i propri sbagli, e le vittime innocenti di un vecchio conflitto lasciano un vuoto inestimabile che servirà per offrire una diversa consapevolezza.

La linfa vitale viene data ai personaggi dalla natura, tanto che l’intensa connessione tra i Metkayina ed il mare ha permesso la costituzione di un villaggio comodo, con una fisionomia ben specifica per l’attività subacquea, caccia inclusa. Un prestito, l’energia donata per la vita vissuta in un corpo, ma va restituita per legarsi in modo atemporale ad Eywa (la Grande Madre); un messaggio di reciproco rispetto, in un’epoca in cui l’ambiente è violentato dall’uomo, non a caso ritratto ancora una volta negativamente nel film. Tutti i contenuti sopracitati, insieme a quest’ultimo, formano una combinazione perfetta per una sceneggiatura semplice ma dal cuore enorme, dotata di un’enfasi senza pari per tutta la lunga durata del racconto: 190 minuti.

Avatar: La Via dell’Acqua, un prodigio tecnico

Avatar: La Via dell’Acqua rappresenta un unicum nel suo genere, un innovazione tecnologica sia come modalità di fruizione per lo spettatore sia per come è stato girato. La mente ancora una volta avanguardistica di James Cameron, nel momento in cui il cinema sembra averne più bisogno perché ancora non si è assestato dall’introduzione dello streaming, dà vita ad un’operazione commerciale a distanza di 13 anni, capace di stupire e lasciare a bocca aperta chiunque. Per ampi tratti il film è girato davvero sott’acqua, per creare un’esperienza visiva senza pari, realmente travolgente nella sua spettacolarizzazione. Per fare ciò, Cameron ed il suo team hanno inventato un tipo completamente nuovo di tecnologia motion capture subacquea; va detto che in precedenza era impossibile combinare scatti subacquei con il mo-cap, perciò gli attori venivano sospesi in aria tramite dei fili per imitare il galleggiamento, e l’acqua veniva aggiunta digitalmente in seguito. Ma le leggi del cinema sono fatte per essere consapevolmente ed artisticamente infrante.

Inoltre, Cameron nel film introduce una tecnologia già nota ed usata nel mondo del cinema, ma decide di usarla diversamente: l’HFR, High Frame Rate. Normalmente i prodotti audiovisivi vengono girati a 24 fps, ossia fotogrammi per secondo. Con l’HFR, la frequenza di fotogrammi aumentano e si può salire a 48 o addirittura 120 fotogrammi al secondo. Cameron ha deciso di utilizzare questa particolare tecnologia solo per le scene d’azione mentre tutti i dialoghi o le scene più statiche sono girate normalmente a 24 fps. L’uso dell’HFR per le scene di azione permette così di avere un effetto molto più nitido, con un’immagine vivida e pulita per aiutare lo spettatore a comprendere ciò che sta accadendo. La regia, di fatto, è unicamente studiata per un tipo di fruizione IMAX 3D, per vivere al 100% l’esperienza visiva offerta dal film. La scelta delle inquadrature è fondamentale: si predilige una certa verticalità, dal basso verso l’alto e viceversa, alternando immagini orizzontali con riprese di quinta e primi piani in rilievo con annesso sfondo fuori fuoco. A ciò si unisce un’azione mozzafiato, mai confusionaria e sempre elegantemente enfatizzata. La pelle dei Na’vi si illumina al buio, rendendo possibile la visione notturna dei loro movimenti senza problemi. L’effetto ottenuto è simile alla narrazione di un videogioco, e potrebbe risultare strana proprio perché è un qualcosa di mai visto; eppure sembra di indossare un VR immersi nello splendido mondo di Pandora.

Cameron passa anche dal genere iniziale, improntato sull’azione e sul western (riprendendo il primo film) con tanto di attacco alla diligenza. La locomotiva è sempre stato un elemento di novità all’interno del vecchio west, segnando l’innovazione tecnologica; un messaggio meta cinematografico impartito dal regista, che poi con un delicato world building marino, sembra passare al documentario. Pandora è un mondo fittizio, eppure la grandezza tecnologica di questa pellicola fa apparire flora e fauna circostanti come davvero presenti, riuscendo con un’emotività ad oggi quasi dimenticata, ad esplorare il background familiare e personale di ciascun personaggio. Non c’è bisogno dell’azione, basta conoscere la storia dei Tulkun e dei Metkayina. Il cinema è questo, arte mimetica allo stato puro che mostra esponendo una narrazione in tutta la sua potenza.

Un film di James Cameron

Importante chiudere la recensione parlando di come si inserisce Avatar: La Via dell’Acqua nella filmografia di James Cameron. La femminilità, nonostante una rappresentazione familiare volta al patriarcato nei due film della nuova saga, non viene mai messa da parte, anzi. Kiri, una delle figlie dei Sully, si dimostra una creatura superiore mentre i maschi pensano ad azzuffarsi; lei è tutt’uno con la natura e a più riprese ha una sensibilità senza pari. E poi il tema della maternità, tanto caro al regista sia nei due capitoli di Terminator che in Aliens, viene qui ripreso sia per mostrare una Neytiri ormai segnata dal passato, dalla violenza e le barbarie degli uomini, che fa fatica a riconoscere come figlio Spider anche se il giovane umano si sente un Na’vi a tutti gli effetti. Ma anche attraverso Kiri c’è una declinazione della maternità, dato che non è figlia biologica dei Sully; non si può scrivere oltre sul personaggio, altrimenti si cadrebbe nello spoiler.

Per di più, Cameron costruisce un mondo per poi minacciarlo di distruzione, in un modo o nell’altro; c’è un affondo di una nave, e i personaggi bloccati all’interno sembrano vivere le stesse difficoltà dei protagonisti di Titanic, generando claustrofobia. Gli uomini capitalisti avidi sono sempre stati presenti nel cinema del regista canadese, e qui non è da meno; la sua forza è riuscire a far empatizzare il pubblico con le creature presentate, per poi vedere come gli uomini-villain tentano di decomporre quanto di buono è stato fondato. Ancora una volta tornano le macchine come corpo-estensione della razza terrestre, come visto in The Abyss, Terminator e Aliens (anche l’acqua, gli è tanto cara). Futuro immaginario, passato e presente vengono fusi dalla mente creativa di James Cameron, che si conferma un uomo fuori dal comune in grado di deformare e comporre con elementi realmente esistenti (biologia) con altri inventati, vendendo tutto come una verità in rappresentanza di temi immortali.

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.