Recensione – Troll: il monster movie su Netflix diretto da Roar Uthaug

Recensione di Troll monster movie su Netflix

Distribuito sulla piattaforma di streaming Netflix a partire dai primi giorni di dicembre, Troll è un film diretto da Roar Uthaug (Tomb Raider), regista norvegese alla sua sesta regia di un lungometraggio. Il prodotto cinematografico in questione, nella sua durata complessiva di 101 minuti, vede la presenza di Ine Marie Wilmann, Kim Falck e Mads Sjøgård Pettersen nei panni dei protagonisti. Il monster movie, per quanto si presenti automaticamente attraverso la sua etichetta da b-movie che certo non lo rende esente da colpe, costituisce un tentativo particolarmente goffo di ricostruire e riedificare epopee alla Spielberg, per mezzo di quel contatto uomo-mostro che dovrebbe rappresentare tutt’altro, in un impianto metaforico che in questo film appare tutt’altro che riuscito. Una pallida e scialba imitazione che ha pochissimi elementi notevoli e che, per questo motivo, si boccia su tutta la linea. Ecco tutto ciò che c’è da sapere a proposito della trama e della recensione di Troll, film di Roar Uthaug su Netflix.

La trama di Troll, monster movie di Roar Uthaug su Netflix

Troll inizia con un prologo molto intelligente (probabilmente l’unica scelta autoriale del film) che vede Nora Tiedemann scalare una montagna insieme al padre: si comprende subito come i due siano rimasti soli, e condividono ogni esperienza in modo unico; qui, il padre di Nora parla a sua figlia a proposito di quelle che la ragazza ritiene soltanto delle “fantasie”: i troll, creature che vivono all’interno delle montagne e che, qualora ci si creda, sarà possibile vedere.

20 anni dopo, Nora è una paleontologa, alla ricerca della scoperta sensazionale di fossili di dinosauro, per quanto l’università di riferimento fatichi a finanziare la sua ricerca non ottenendo dei risultati; contemporaneamente, in Norvegia si continua – nonostante le manifestazioni – a scavare all’interno delle montagne per costruire un tunnel, ma un evento apparentemente sovrannaturale ferma i lavori e devasta l’intero cantiere: in uno stato di allerta nazionale, Nora e altre figure presenti nella comunità scientifica vengono invitate dal Primo Ministro per discutere di un evento che sembra non avere spiegazioni fisiche e biologiche: nel terreno, infatti, sono state identificate delle tracce enormi, che non possono appartenere ad animali o esseri viventi. Nel corso della propria ricerca, Nora si ricongiunge con il padre, che ormai è stato allontanato dal suo lavoro di ricerca e appare impazzito, a seguito di una serie di ricoveri psichiatrici: quest’ultimo continua a sostenere che i troll esistano ma che, nella ricerca realizzata, c’è stato un errore a proposito di queste creature non soltanto di fantasia.

Mentre padre e figlia discutono, un troll si risveglia e inizia ad attaccarli: da qui inizia l’impianto dei classici monster movie, con il governo che cerca invano di contrastare il troll attraverso armi e soluzioni nucleari, che risultano essere inutili. Contemporaneamente, Nora scopre la causa della rabbia del mostro: il Palazzo del Re, un tempo abitato da una famiglia di troll, è diventato il rifugio di un massacro di quei mostri, operato dalla cristianizzazione del territorio: soltanto un troll è sopravvissuto, e va alla ricerca della propria famiglia. Nora e Andreas (suo assistente nelle ricerche) tentano a tutti i costi di uccidere il troll attirandolo in una trappola ma quando pannelli di luce sono scagliati contro il mostro, che soffre, la paleontologa ferma l’esperimento, rendendosi conto della malvagità del suo operato. Nora cerca allora di scacciare il troll, chiedendogli di andar via e assicurandogli che nessuno lo cercherà mai, ma l’imminente alba (la luce solare uccide i mostri) distrugge definitivamente il mostro, che si trasforma in un cumulo di rocce. La scena post-credit del film mostra altri troll nascosti pronti a devastare l’intero paese.

La recensione di Troll: tante occasioni sprecate

Troll segue una tendenza rappresentativa che accomuna tanti registi che vogliono fare il salto di qualità, attraverso un impianto che permetta di rendere il film dai connotati fortemente politici ed ideologici; contemporaneamente, la collaborazione con la piattaforma di streaming Netflix ha assicurato a Roar Uthaug un insieme di aspetti produttivi che appaiono, in termini quantitativi e qualitativi, certamente migliorati rispetto alle sue precedenti esperienze cinematografiche: una scenografia convincente, un grande investimento negli effetti speciali e la promessa che attraverso il mostro si potesse riflettere su uno dei temi caldi e sentiti nell’ambito della contemporaneità, il cambiamento climatico.

La frittata è presto fatta attraverso un calderone che ingloba una serie di occasioni sprecate da una scrittura e da una messa in scena che, rispetto alle aspettative che il film vuole avere, appaiono particolarmente goffe e sterili. Troll è un dichiarato b-movie, ma ciò non salva assolutamente gli intenti narrativi di una pellicola che si risolve in una serie di cliché rappresentativi: nello stesso film si osservano, infatti, tutti gli stereotipi tipici di un certo tipo di cinema che non soltanto i grandi autori, ma anche i registi indipendenti hanno cercato di superare negli ultimi anni. A partire dal rapporto padre-figlia in assenza di una madre scomparsa, fino al Primo Ministro connotato negativamente (indifferente, meschino, egoista), passando per l’assistente di quest’ultimo rappresentato in modo stupido, tronfio e panciuto; e ancora l’assistente hacker, pronta a salvare l’intero pianeta per mezzo delle sue dita velocissime su una tastiera. E che dire, infine, del mostro (un misto piuttosto goffo tra Godzilla e King Kong, nelle movenze e nella rappresentazione estetica) a cui soltanto la protagonista sa parlare – altra citazione cliché – per mezzo di quella comprensione di cui difettano tutti gli altri esseri umani, in preda alla paura?

Troll è un film che non riesce mai a distaccarsi da una narrazione facile, comoda, già sperimentata e per questo stanca fin dal principio: se le premesse del prologo – con il rapporto realtà-fantasia e il “vedere per credere” che viene rovesciato in “credere per vedere” – appaiono intelligenti, il film sfuma velocemente in un nulla di fatto, sprecando le innumerevoli rappresentazioni allegoriche che anche un monster movie mal fatto potrebbe offrire allo spettatore; in questo caso l’idea era quella di portare contemporaneamente sullo schermo il conflitto tra natura e uomo, rappresentativo dell’idea nefasta di cambiamento climatico, oltre che il contrasto religione-realtà, che potrebbe provocare un’intelligente riflessione a proposito delle conseguenze della cristianizzazione di un territorio come la Norvegia. Dal punto di vista tecnico, certamente il comparto degli effetti speciali riesce a ricostruire un mostro particolarmente attrattivo, nella sua immagine e nella sua estetica, per quanto appaia un’eccezione all’interno di un film che – forse – vede nella sola scena dell’inseguimento un qualcosa di riuscito dal punto di vista registico. Poca roba, date le occasioni, la materia da cui attingere e la produzione del film stesso.

Troll di Roar Uthaug: voler fare Spielberg senza esserlo

Attingere da una materia cinematografica in grado di fare la storia o di rivoluzionare il genere non è certamente un crimine, così come gli elementi derivativi non appaiono mai necessariamente fuori posto, se ordinati entro una cornice che sappia servirsene attraverso un’idea di linguaggio, di stile o di narrazione. Troll di Roar Uthaug non riesce, però, in nulla di tutto questo: è chiara l’intenzione predominante del film, che vuole servirsi del mostro per rappresentare la natura che si ribella, il mondo che eccede oltre l’azione dell’uomo; il Troll altro non è che l’insieme di quelle conseguenze che l’uomo deve inesorabilmente aspettarsi, a seguito di un’azione continua a reiterata (in questo caso scavare un tunnel all’interno delle montagne) che danneggia il mondo in cui si vive.

Per questo motivo, Troll è un misto tra la concezione allegorica del mostro in Jurassic Park e l’impianto disastrante di Ready Player One, due pellicole spielbergiane in cui si riflette a proposito del contatto uomo-mostro: Steven Spielberg sostiene che anche l’essere sovrannaturale abbia un’anima, capace di riflettere il contrasto tra chi il mostro lo teme e chi, invece, prova a dialogarci. Per questo motivo, dunque ognuno dei suoi film operati su questo stampo segue un filo logico intelligente, capace di restituire una metafora netta, percepibile, che riflette a proposito della extra-ordinarietà in grado di spiegare l’ordinarietà: è l’essere sovrannaturale, la minaccia aliena, il mostro a permettere che l’inconsistenza dell’uomo e il suo sopito conflitto interno fuoriescano, per mezzo di una caccia alle streghe impazzita che si risolve in fuoco, fiamme e nulla di fatto. Se le premesse sono buone – poiché attingere da questa materia non è certamente sbagliato – il film tradisce quelle aspettative, risolvendosi nella più chiara e limpida dimostrazione che fare Spielberg senza esserlo può essere controproducente, restituendo soltanto un prodotto sterile, goffo, di cui si conoscono le ambizioni ambientaliste ma che vedono queste ultime tradite dalla messa in scena.

About the Author

Gabriele Maccauro
Laureato in Lingue Orientali presso "La Sapienza" di Roma, Master in Adattamento Dialoghi per Cinema e Tv presso Accademia Nazionale Del Cinema di Bologna e Sceneggiatore. Amante del cinema e della critica cinematografica.