Flop 10 del 2022: i peggiori film dell’anno

I peggiori 10 film del 2022: la classifica

Per fare un resoconto in chiusura d’anno, bisogna riflettere sui numerosi titoli cinematografici che sono stati rilasciati nel 2022. Dando uno sguardo ai film qualitativamente più entusiasmanti dell’anno, a quelli più deludenti o poco convincenti per messa in scena, tecnicamente e contenutisticamente. Per dare maggior brio alla seguente classifica, da chi scrive non verranno conteggiate pellicole considerabili del 2021 per produzione e prima distribuzione, dunque a prescindere dal fatto che siano arrivati in Italia nel 2022. Ecco allora, dopo la doverosa premessa, la classifica dei peggiori 10 film del 2022.

10) Dont’ Worry Darling – Olivia Wilde

Presentato fuori concorso a Venezia 79 e con questioni extra diegetiche che hanno fatto involontariamente (oppure no?) pubblicità al film, secondo in carriera, di Olivia Wilde. I protagonisti sono Florence Pugh e Harry Styles, ma mentre la prima è sul pezzo il secondo no, e la chimica tra i personaggi ne risente e ne perde di credibilità. Oltre tutto, c’è uno scopiazzamento continuo ad altri film come Matrix, prendendo spunto ingombrante dalle pellicole fantascientifiche da cui parte il soggetto. Tecnicamente non è nemmeno così male, il suono e la colonna sonora sono un buon modo di veicolare il crescere della tensione, peccato che narrativamente risulti debole e impantanato su meccanismi di “vedo o non vedo” addossato alla protagonista. Non c’è niente di più goffo, mal riuscito e negativo del finale, una risoluta presa di posizione aprioristica che non convince per messa in scena e finalità di sceneggiatura. Durata eccessiva, svilente.

9) Bardo – Alejandro González Iñárritu

Presentato anche questo titolo a Venezia 79 (in concorso) e ritoccato nella durata prima di finire su Netflix questo dicembre. Il regista messicano dopo The Revenant si è voluto concedere un film più personale, nello stesso anno di Spielberg, evidenziando le dovute differenze: quest’ultimo infatti è stato genuino nel parlare di cinema attraverso la sua vita; il collega messicano non è stato altrettanto all’altezza, tentando invano di raccontare sé stesso attraverso le belle inquadrature, e gli effetti speciali nemmeno realizzati benissimo. Ci si lascia prendere la mano per 3 ore di durata incredibilmente lunghe, poco chiare e inutilmente oniriche, per poi far cadere lo spettatore in un eterno limbo di noia per la confusione dei contenuti: il regista si pente del periodo americano, eppure ha vinto Oscar ed ha raggiunto una fama internazionale; sposa e ricorda la sua vita in Messico, però poi sul finale la rigetta per dichiararsi fieramente americano. Cosa vuol dire??? Insomma, Bardo è uno svilente autoritratto all’insegna dell’autocompiacimento. Se Iñárritu ci tiene a complimentarsi con sé stesso attraverso un film fintamente personale e assolutamente non autentico, non si può far altro che prenderne le distanze.

8) Everything Everywhere All at Once – The Daniels

Nel peggio dell’anno c’è questo film indipendente tanto acclamato negli USA: non c’è un singolo tratto di innovazione, tanto meno un briciolo di autenticità dei sentimenti. Il dramma familiare è il pretesto per sfoggiare battute comiche, creatività con dita salsicce e multiversi vari dove la funzione del cinema non è richiesta, sfrattata dal fumetto e dal trand dei cinecomics che prendono il sopravvento. Non c’è significa o studio dietro le inquadrature; le sequenze d’azione devono le coreografie al cinema orientale; il racconto si incarta più e più volte per fermarsi a stupire con una citazione insulsa ad altri film, assolutamente non funzionale. Il monologo finale è quanto di più retorico e fasullo si possa vedere nel 2022: film noioso, vuoto e pretenzioso.

7) C’mon C’mon – Mike Mills

Su di un film di questa tipologia c’è davvero poco da commentare: 1h40 di durata per fingere di raccontare qualcosa di inconsistente, ma soprattutto inesistente. Joaquin Phoenix svogliato in un ruolo il cui potenziale ci sarebbe anche, ma si decide di perdere i minuti instaurando dialoghi tra lui e suo nipoti in un simil viaggio on the road dove la retorica e i finti sentimentalismi la fanno da padrone.

6) Thor: Love and Thunder – Taika Waititi

Waititi lo afferma a caratteri cubitali: i cinecomics non possono fare più di così. La presentazione e il finto sviluppo del suo Thor, ormai da anni alla ricerca del suo Io ma che puntualmente non riesce a trovare, è una decostruzione continua di personaggi non costruiti, e dunque operazione parodistica vana e fatiscente poiché accompagnata da battute anche volgari e di cattivo gusto. Il target è decisamente basso, sembra un film per bambini e si fa fatica a comprenderne la produzione in casa Marvel. Thor è un personaggio che ha stancato, ed è a sua volta stanco; il Dio del tuono non ha più nulla da dire per quanto ci si sforzi di trovare letture e contro letture sulla sua incredibile e toccante umanità (mai realmente presente). I personaggi sono sopra le righe, anche mal diretti (recitazione pessima); montaggio confuso, sgrammatico; fotografia in difficoltà nelle scene notturne; Gorr è una presenza di troppo, ed è un problema essendo il villain. Non c’è un briciolo di serietà nemmeno quando si trattano malattie terminali. Film assolutamente mal riuscito, per chi scrive.

5) Men – Alex Garland

Dal regista di Ex Machina è lecito aspettarsi di più, eppure il suo Men non fa nulla di introspettivo pur volendo trattare il tema della mascolinità tossica e la ricerca dell’identità femminile. Sembra voler virare sulla corporalità tipica di Cronenberg, eppure si impantana in una struttura onirica senza credibilità e invano tenta di stupire con trovate visive degne di nota: peccato che manchino anche quest’ultime. Raramente ci si trova di fronte un horror noioso, ma questo è il caso più calzante che ci possa essere quando ci si chiederà quale titolo dell’orrore riesce ad essere costantemente piatto e poco interessante nel suo filo conduttore grottesco. Non c’è spazio per la caratterizzazione, non c’è volontà di presentare elementi horror tramite il contenuto del corpo, e soprattutto non c’è voglia di uscire dalla retorica ingombrante del messaggio, veicolato in modo totalmente artificioso e consequenzialmente finto. Film di questo tipo non servono a niente, se non a irritare lo spettatore che, uscito dalla sala, ha già dimenticato cosa ha visto.

4) The Menu – Mark Mylod

Quando l’esercizio di stile viene messo in atto con una presunzione tale da risultare, anche in questo caso, finto e tremendamente vuoto. In qualsiasi chiave di lettura si veda il film, The Menu è l’ennesimo film che cerca di far empatizzare lo spettatore con un un killer spietato, raccontando la sua vita, i suoi traumi e le sue frustrazioni. I clienti sono come i consumatori di film o di arte in generale, che non si godono appieno la genialità del produttore o della figura autoriale in questione, sfruttando semplicemente il capitale per postare una storia instagram. Un modo di proporre cinema che è essenzialmente anticinema, non veicolando nulla con le immagini ma narrando una frustrazione personale decisamente pacchiana e poco funzionale, e soprattutto inutile. Uno sfogo da finto intellettuale che tenta invano di fare la morale ai consumatori poco attenti alla bellezza dell’arte, e dunque “se non sei uno sceneggiatore non puoi parlare dei film” così come un cliente non può commentare il cibo che sta ingerendo.

3) Jurassic World: Il dominio – Colin Trevorrow

La chiusura della trilogia di Jurassic World è l’apice del disgusto commerciale: un’opera finalizzata soltanto al guadagno, conscia del brand che “indossa” e dunque non c’è bisogno di sforzarsi per dar vita ad un film quanto meno decente, sia tecnicamente che narrativamente. L’imbarazzo è presto invadente, il sentimento più provato nel guardare quest’opera indigesta a tutti se non ad un pubblico di bambini che distrattamente vedono dei dinosauri in CGI (pessima) che lottano fra di loro o inseguono i protagonisti, in scene d’azione semplicemente ridicole ed esagerate in tutto e per tutto: Fast and Furious versione dinosauri. L’operazione rimpatriata sembra una fan fiction senza emozione, non se ne comprendono le motivazioni e i personaggi sono sacrificati in virtù di una sceneggiatura che sembra quasi schernire gli spettatori.

2) Morbius – Daniel Espinosa

In casa Sony si tenta disperatamente la via del cinefumetto, anche se i risultati raggiunti sono semplicemente ed egoisticamente imbarazzante. Morbius, per di più, è stato un flop al botteghino: questo fa comprendere come a differenza di Jurassic World che nemmeno ci prova, questo modo di proporre film è inconcludente se non si ha una credibilità o una forte affezione alle spalle. La Sony deve capire che continuando su questa linea non farà altro che dar vita a nuovi flop e a disaffezionare i fan andati in visibilio per Spiderman: No Way Home. Infatti, questo film è incredibilmente mal fatto sia tecnicamente, con scene d’azione dirette con dei ralenti simili ad un fermo immagine, o velocizzando il video per mascherare la terribile CGI. I pipistrelli pervadono lo schermo durante il combattimento finali, proprio nel tentativo di non mostrare la debolezza o addirittura la totale mancanza di effetti visivi. I vampiri non sono credibili, i personaggi sono fuori fase e sopra le righe per tutta la durata; non c’è interazione che non risulti contraddittoria e lo sviluppo del protagonista, tenta di fornire intimità con dei flashback ma non fa altro che mostrare quanto sia stato generato un prodotto senza idee tecniche e contenutistiche.

1) Blonde – Andrew Dominik

Il peggior film dell’anno, per chi scrive, è senza dubbio Blonde di Andrew Dominik, presentato in concorso a Venezia 79. Il problema del film è che risulta non voler bene al cinema come gliene vuole Spielberg con il suo ultimo The Fabelmans: non c’è creazione delle immagini, non c’è fiducia ma al contrario si tenta invano di decostruire inventando storie e ritraendo una Hollywood fasulla nel mostrare Billy Wilder e i registi classici come dei maschi tossici che godono nel mettere in difficoltà le dive, in primis la protagonista. Il problema è che, leggendo e studiando tutte le interviste e i materiali d’archivio del caso, si può parlare di una contraffazione della realtà in virtù di una morale forzata, dato che Dominik inquadra Ana De Armas sessualizzandola, per poter essere giudicato benevolmente. Eppure questo modo di fare cinema, molto egocentrico e poco funzionale, non ha un’identità ben precisa: cambia il formato, cambia la fotografia, ma non se ne conosco le motivazioni. Si provoca costantemente, anche con immagini forti quali un feto ricostruito in CGI. Il senso della provocazione così fine a sé stessa, qual è? Perché essere così falsi per parlare con una tale goffaggine di un argomento così delicati, in un momento storico contemporaneo? Il film tra le altre cose dura un’eternità: 2 ore e 50 per mostrare una Marilyn Monroe in crisi con sé stessa per la mancata figura paterna, che evidentemente ricerca in altri uomini, colpevolizzati di pensare solo ed unicamente al sesso. Non c’è dialogo, solo una chiusura mentale in un tentativo di onirismo incredibilmente vano.

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.