Top 10 del 2022: i migliori film dell’anno

I migliori film del 2022: la top 10 dell'anno

L’anno è in chiusura, e per accogliere il 2023 bisogna prima fare i conti con quanto visto cinematograficamente parlando in questo 2022. Sono più di 500 i titoli arrivati in Italia nelle sale, più quelli distribuiti in streaming. Bisogna tirare le somme e provare a sancire quali sono i migliori film usciti quest’anno. La premessa è che chi scrive è riuscito ad essere presente alla 79esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e dunque per dare nuovo brio all’ordine della classifica, senza contare film ritenibili del 2021 quali Licorice Pizza, The Tragedy of Macbeth, Spencer e così via. Ecco allora la classifica dei migliori 10 film del 2022.

10) Un altro mondo – Stephane Brizé

Titolo presentato in concorso alla 78esima mostra del cinema di Venezia e che è stato distribuito in Italia soltanto nel 2022. Brizé parte dal singolo, in questo caso un capo d’azienda francese, per parlare della società tout court. Ogni personaggio è il capo di qualche altro personaggio, generando una piramide sociale che lascia riflettere l’osservatore su quanto l’uomo sia considerabile schiavo del Dio denaro, specificamente qui intitolato Wall Street, siccome è l’azienda americana il cuore pulsante di tutte le altre fabbriche. Il protagonista sente la pressione dei licenziamenti, analizzando con gli altri direttori le conseguenze di determinate scelte, mettendo costantemente in risalto l’utilità di uno piuttosto che di un altro, e così facendo si pone sotto la lente d’ingrandimento della macchina da presa l’intimità umana sia personale che regolata da leggi (sociali o politiche che siano).

9) Saint Omer – Alice Diop

La sindrome di Madea viene incarnata in un film lucido quale è quello della Diop, qui alla sua prima firma per quanto riguarda un lungometraggio di finzione. Si nota che la mano della regista, premiata a Venezia 79, è sempre stata impegnata dalla realizzazione di documentari, e in Saint Omer la commistione dei linguaggio parte dal processo, recitato e dialogato quasi come se si trattasse di materiale d’archivio; e poi la parte fiction riguarda il personaggio della protagonista, quasi incarnante la figura della regista che ha osservato e osserva la realtà per trarre spunto per le sue opere. Struggente la storia di Laurance Coly e dell’uccisione del suo bambino annegato, quasi come a voler dire che nella società attuale è difficile trovare il proprio posto perché troppo avida, con le vecchie generazioni in preda all’autocommiserazione e all’egocentrismo; in tal senso non è un caso che l’anziano è il padre della povera creatura che ha perso la vita per mano della madre.

8) Crimes of the Future – David Cronenberg

Un’apologia profetica sul senso dell’immagine e dell’artista in un ipotetico futuro dove i cambiamenti climatici e corporali sono tali da dover indurre l’uomo a riscrivere le leggi sociali per non perdere l’identità e la coesione in preda all’anarchia. Un bambino ucciso dalla propria madre apre il film, introduce una critica sia ai mari inquinati dall’uomo con la plastica, qui mangiata dal ragazzino poiché i suoi organi interni lo consentono e anzi, la bramano. I villain sono dei maniaci del controllo in un senso (registrazione degli organi) o in un altro (appropriazione e vendita), e i protagonisti incarnano la figura dell’artista che si trova in questo limbo tra gestione e proprietà dell’indole corporale in questo atipico futuro, anche piuttosto malinconico ed espressione di solitudine. I confini del piacere, del mancato dolore fisico, e del dialogo mentale, vengono riscritti dal maestro Cronenberg riflettendo sull’uomo come animale sociale in rapporto all’immagine.

7) Tàr – Todd Field

Presentato in concorso a Venezia 79, Todd Field firma una delle sceneggiature più complesse e audaci degli ultimi anni, presentando un personaggio che incanala in sé gli aspetti più negativi dei maschi, comportandosi esattamente come un classico uomo di successo in preda a dei continui attacchi di egocentrismo. Lydia Tàr, magistralmente interpretata da Cate Blanchette premiata con la Coppa Volpi, è una mamma, ma anche una moglie ambiguamente infedele, tormentata di rumori bianchi che ascolta in auto o in altri posti in cui si trova, perché il suo orecchio da direttrice d’orchestra ha cambiato la sua percezione della vita. Il cinismo con cui si apre il film, con tanto di dialogo tra lei e un suo studente sulla figura dell’artista, offre lo spunto cruciale allo spettatore: anche se un artista è incredibilmente geniale, se nella vita si comporta in modo pessimo, ciò influisce sul suo operato? Il finale è secco, senza scrupoli.

6) Parigi, 13Arr. – Jacques Audiard

Il film francese è dotato di una sensibilità senza pari, ritratto metaforico di deprivazione sensoriale sia fisica che sentimentale, da parte di un gruppo di persone costrette dall’architettura urbana parigini ad agglomerarsi piuttosto che a riservarsi una propria intimità. Alla lunga questo processo di insieme che riunisce i personaggi-persone porta a una inevitabile difficoltà nel provare sentimenti autentici, oltre che piaceri sessuali. Un film fatto di dialoghi intensi, sguardi ammiccanti e ammalianti, introspezione sul personale ruolo che si ha nella società, un perfetto della sovrastimolazione della generazione Z, nonché dell’essere umano che dopo aver visto la sua immagine riflessa non è in grado di provare alcun interesse sincero verso l’altro, né con il dialogo né con il rapporto fisico.

5) The Fabelmans – Steven Spielberg

L’ultimo film di Spielberg è una preziosa e fondamentale colonna: una lettera d’amore spassionata, umile, alla potenza della macchina da presa e del linguaggio cinematografico. Il maestro attinge dalla sua vita personale per fare un discorso sulla potenza del cinema, dimostrando il suo essere dieci passi avanti rispetto ad altri colleghi che hanno approfittato della settima arte per farsi conoscere meglio da un punto autobiografico. The Fabelmans dimostra l’influenza che può avere la passione per il cinema, svolgendo un puntuale lavoro sul rapporto tra elementi diegetici (le immagini) ed extra diegetici (la colonna sonora di John Williams) per innescare una profonda riflessione sull’abilità, sulla fiducia che un autore può provare nei confronti delle immagini stesse. La vita di Sammy, diretto magnificamente da Spielberg che ha l’umiltà di lasciar fare al giovane attore senza ridurlo ad una mera copia delle sue movenze personali, viene sconvolta sia dalla passione e proprio dalla fiducia narrativa e disvelante delle riprese cinematografiche: così scopre la verità su sua madre, che inciderà prepotentemente su tutta la famiglia. Nel contempo viaggia la storia drammatica e biografica di tutti i componenti familiari, alle prese con i propri problemi, decostruendo il sogno americano in una scenografia disillusa e in personaggi intolleranti, come gli Stati Uniti erano a quei tempi.

4) L’isola degli spiriti – Martin McDonagh

Presentato anche questo film a Venezia 79 e premiato il regista per la sceneggiatura e Collin Farrell con la Coppa Volpi, L’isola degli spiriti entra in top per un modo di fare cinema che mancava da tempo. McDonagh si conferma abile sceneggiatore, meravigliosamente convincente con il suo humour piazzato con i tempi giusti e con quel velo di cinismo finalizzato a far trapelare la verità dalla bocca dei suoi personaggi. Il cast è diretto magistralmente, senza nessun tipo di calo, e con grandi interazioni; la sceneggiatura è ricca di sotto trame importanti come la metafora di un’amicizia per parlare della Guerra Civile Irlandese; due strade diverse imboccate sotto lo sguardo giudicante della Madonna, qui una statua piazzata in un bivio. Non c’è niente di meglio che un film che riesca, anche in modo classico, a raccontare con le immagini di una scenografia naturale mozzafiato, unite alla brillante sceneggiatura che alterna un registro da commedia ad uno più drammatico, come il finale. Non mancano momenti ripetitivi a sottolineare la quotidianità e la monotonia a cui sono sotto posti i cittadini della piccola comunità presente sulla costa in Irlanda, ma soprattutto quegli elementi squisitamente grotteschi che lasciano riflettere e restano nella mente degli osservatori più attenti.

3) Pinocchio di Guillermo del Toro

Pinocchio di Guillermo del Toro, oltre ad essere il miglior film d’animazione del 2022, è un incredibile modo per il regista messicano di far proprio un materiale non originale, per renderlo reazionario. Pinocchio non si trasforma in un bambino vero, ma a legarlo al concetto di vita sarà la possibilità di morire, imboccata dal sacrificio finale di rinunciare all’immortalità di burattino per salvare la pelle al povero Geppetto. La declinazione della figura paterna viene scomposta tra il falegname, Mangiafuoco che qui è Volpe, e il Podestà padre di Lucignolo, anche gestore di un campo di formazione fascista che ha sostituito il Paese dei Balocchi nel racconto. La colonna sonora di Desplat è di assoluto valore, a donare quell’aura favolistica alla narrazione, anche con delle canzoni originali come Ciao Papa, candidata ai Golden Globe. La dittatura viene ridicolizzata e svuotata di ogni senso possibile, come solo gli autori tanto sensibili sanno fare. Pinocchio è la personificazione della depressione del padre, che inizialmente lo rifiuta quasi, perché è una semplice sostituzione di chi non c’è più (Carlo). Eppure la maturazione di Pinocchio, come avviene in ogni trasposizione, passa per le (dis)avventure vissute in prima persona, alle relazioni con il Grillo Parlante, con la fatina che qui è doppia e sono degli Spiriti (vita; morte). Alla fine, la pigna cade dall’albero: un immagine poetica per immergere lo spettatore in sentimenti riflessivi oltre che puramente emozionali.

2) Avatar: La Via dell’Acqua – James Cameron

Impossibile non piazzare sul podio un film di una portata unica, mastodontica, per diverse ragioni. Avatar: La Via dell’Acqua è un’operazione voluta da James Cameron che ha del clamoroso; registrati guadagni da oltre un miliardo in poco più di 14 giorni, questo per il passaparola positivo dovuto anche e soprattutto all’unicità dell’esperienza cinematografico, ormai sempre più rara di questi tempi. Cameron invece è un genio, e lo conferma mandando avanti una storia a distanza di tanti anni dal primo capitolo, facendolo in un modo incredibilmente maturo, genuinamente autoreferenziale e omaggiante verso altri titoli (tra cui Spielberg). Avatar: La Via dell’Acqua racconta il rapporto tra le tribù e le creature marine, come la liquidità della società è sempre più attuale, oppure ancora quanto il bene possa inglobare il male e viceversa, generato anche dal fondamentale dialogo tra generazioni diverse: alla fine i figli raccolgono i problemi lasciati dai padri, per poi salvarli dimostrandosi ampiamente superiori. La modernità passa per la tradizione: dal western con tanto di assalto alla locomotiva si arriva al documentario, per dimostrare le usanze e le culture di un altro popolo dell’infinito mondo di Pandora. Kiri è il migliore dei personaggi introdotti in questo nuovo capitolo, dimostrando quanto la sensibilità femminile sia l’oltre ambito dall’umanità, e come essa possa inglobare anche una figura cristologica nello spirito. L’uomo capitalista è ancora il cattivo principale dei film di Cameron.

1) Nope – Jordan Peele

Nope di Jordan Peele è il capolavoro dell’anno perché riesce a inglobare in sé una serie di elementi incredibilmente originali ed entusiasmanti: è una profonda riflessione sull’immagine e sulla sua capacità di catturare la realtà, rappresentato da un film fantascientifico, horror e western. Quest’ultima, dialogando con la prima, viene a sua volta rimodellata; Gordy la scimmia, i cavalli, sono sfruttati dall’immagine ma decidono di ribellarsi non appena si accorgono dell’artificio. Allo stesso modo, i due fratelli protagonisti denunciano con la gestualità, quello che la comunità afroamericana rappresenta per l’uomo capitalista bianco, storicamente; a tal proposito si narra la vicenda del fantino sul cavallo quando venne creata la fotogenia per la prima volta. Uno china il capo, l’altra tenta in tutti i modi di essere apprezzata in quanto fonte d’intrattenimento in più declinazioni. Lo sguardo è fondamentale poiché è il mezzo con cui l’uomo è divorato dall’immagine stessa, qui incarnata in un alieno che minaccia i confini della fattoria dei protagonisti, come in un vero e proprio western. Il triello finale vede la tradizione vincere sul contemporaneo: l’immagine analogica è unica, immortale e cattura un momento irripetibile della realtà. Nope rappresenta un grandioso mix di elementi postmoderni e tradizionali che lo elevano a un 2001: Odissea nello Spazio o ad un Lo Squalo dell’attuale generazione, per tensione, profondità di riflessione, e maturità registica. Che Jordan Peele possa già tra qualche anno sfornare film di una qualità tale da definirlo un nuovo maestro del cinema? Per chi scrive, è un’opzione che può prendere forma.

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Christian D'Avanzo
Cinefilo dalla nascita e scrittore appassionato. Credo fermamente nel potere dell'informazione e della consapevolezza. Da un anno caporedattore della redazione online di Quart4 Parete, tra una recensione e l'altro. Recente laureato in scienze della comunicazione - cinema e televisione presso l'università degli Studi Suor Orsola Benincasa.