Freaks Out: uno dei più grandi “what if?” degli ultimi anni (Recensione)

Freaks Out: uno dei più grandi "what if?" degli ultimi anni (Recensione)

Freaks Out è un film del 2021, nonché secondo lungometraggio diretto da Gabriele Mainetti, a seguito del grande successo ottenuto da Lo chiamavano Jeeg Robot del 2015. A seguito della prima esperienza cinematografica, il regista si è servito ancora una volta del soggetto di Nicola Guaglianone, oltre che della collaborazione con Claudio Santamaria in uno dei ruoli dei personaggi presenti all’interno del film. Se Jeeg Robot aveva ottenuto il plauso della critica – anche internazionale – e un grande successo mediatico, con Freaks Out il discorso si fa differente, a dimostrazione di un progetto dalle potenzialità ancor più elevate rispetto al precedente film ma che, in virtù di una serie di eccessive elucubrazioni onanistiche del regista (oltre che della sceneggiatura) si arena in un pantano insostenibile; di seguito, si offre la recensione di Freaks Out, uno dei più grandi “what if?” degli ultimi anni.

La trama di Freaks Out, il secondo film di Gabriele Mainetti

Freaks Out si apre con la presentazione del Circo Mezzapiotta, che sopravvive in una Roma disastrata dagli effetti della seconda guerra mondiale: gli artisti che vi si esibiscono possiedono un potere al di fuori del comune, tanto da stupire il pubblico con esibizioni strabilianti; Cencio (Pietro Castellitto) è un ragazzo albino, che ha il potere di attirare e spostare gli insetti in qualsiasi direzione – tranne le api, quelle je stanno sul cazzo –; Furio (Claudio Santamaria) è un uomo che soffre di ipertricosi e possiede una forza brutale; Mario è un nano, che presenta un leggero ritardo mentale ma ha la capacità magnetica di attirare oggetti metallici; Matilde (Aurora Giovinazzo), infine, è la ragazza del gruppo che ha la capacità di accendere lampadine semplicemente a contatto con il suo corpo, provocando – inoltre – scariche elettriche. I quattro freaks sono guidati da Israel (Giorgio Tirabassi), il proprietario del circo che ha intenzione di abbandonare l’Italia e partire per l’America, a seguito dell’occupazione nazista.

Dopo aver affidato i propri soldi a Israel, i quattro – credendo che li abbia traditi e abbandonati – scampano a un rastrellamento decidono di lavorare per il Berlin Zircus, che registra un tutto esaurito in occasione di ogni sera; tuttavia, si tratta di un progetto fatiscente messo in piedi da Franz (Franz Rogowski), un celebre pianista con sei dita che vuole scovare le quattro persone con i poteri che ha osservato nei suoi sogni: a contatto con l’etere, infatti, l’uomo è in grado di vedere il futuro e, in questo modo, scopre che la Germania è destinata alla sconfitta della guerra, al processo di Norimberga e al suicidio di Hitler; il circo, dunque, gli serve per scovare quelle persone e torturarle affinché mostrino i propri poteri, da utilizzare per vincere la guerra. Se i tre uomini del gruppo decidono di raggiungere il Berlin Zircus, in cui saranno immediatamente scelti – e torturati – da Franz, Matilde scappa proseguendo sulla sua strada e cercando Israel ma, dopo essere scappato a un tentativo di violenza di due guardie tedesche, viene accolto dal gruppo di partigiani capitanato dal Gobbo.

Qui la ragazza svela la sua storia: nonostante il suo immenso potere, che potrebbe permetterle di battere da sola l’intero esercito tedesco, non vuole esercitare violenza dal momento che ha ucciso – per sbaglio – sua madre folgorandola. Il Gobbo decide affidarla all’orbo, un cecchino senza un occhio che conosce Franz e che indirizza la giovane al Berlin Zircus. Dopo essere stata catturata, Matilde viene esibita insieme agli altri nello spettacolo di Franz – in cui è presente anche Kesserling -, in cui l’uomo vuole dimostrare ai presenti il potere dei quattro. Matilde, però, per la prima volta controlla il suo potere e addomestica una tigre, che avrebbe dovuto folgorare, e ridicolizza l’intero spettacolo di Franz.

Quest’ultimo, dopo aver ucciso suo fratello per assumerne l’identità, decide di guidare un gruppo di uomini verso un treno della morte, dove è presente anche Israel e raggiunto anche dai quattro freaks (scappati intanto da Berlin Zircus), intenti a salvare tutti i presenti. In un delirante scontro finale, che include anche i partigiani e vede tutti combattere, la situazione sembra volgere a favore nei nazisti (dotati di carrarmato), ma Matilde – spronata da Israel prima che questi trovi la morte per un colpo di fucile – sprigiona tutto il suo potere folgorando tutti. Franz, resosi conto della sua sconfitta e della morte della sua futura morte, si rende conto che il suicidio che osservava nei sogni non era quello di Hitler, ma il suo: si toglie così la vita. I quattro ripartono con il proprio viaggio, con Matilde che – finalmente – può controllare il suo potere.

Recensione di Freaks Out: un prologo perfetto e poi solo discesa

Se si potesse offrire il giudizio complessivo di un film soltanto guardando al suo prologo, per Freaks Out si potrebbero spendere delle parole di lode senza alcun limite. La presentazione del circo Mezzapiotta, attraverso uno spettacolare Giorgio Tirabassi all’interno del film, introduce immediatamente il tono favolistico che il film vuole assumere: il rimando ad Inglorious Basterds di Quentin Tarantino è evidente, non soltanto per la spettacolarizzazione della seconda guerra mondiale presente all’interno del film, ottenuta attraverso una prospettiva differente rispetto a quella del campo di battaglia, ma anche e soprattutto in virtù della volontà di ribaltare il punto di vista storico; i freaks di Gabriele Mainetti sono personaggi che si disinteressano alle sorti della guerra, per quanto potrebbero essere dei protagonisti di quest’ultima in chiave supereroistica, badando al proprio interesse e alla propria condizione sociale. La presentazione dei poteri di ognuno – ottenuta sulla base delle dinamiche circensi – appare senza dubbio originalissima, oltre che particolarmente evocativa per le sue immagini.

Ed è proprio come in Bastardi Senza Gloria che Gabriele Mainetti realizza una prima scena particolarmente prolungata e duratura, in grado di costruire – passo dopo passo – le intere dinamiche del film: sul momento di massima tensione, negativa e palpitante per il film di Tarantino, positiva e distensiva per Freaks Out, si assiste all’evento sconvolgente, che deturpa quanto costruito fino a quel momento, squarciando il velo della sensibilità dello spettatore e immettendo crudelmente all’interno del film. Tutto ciò che si è osservato, fino a quel momento, è soltanto l’anticipazione della pellicola a cui si assisterà: in Bastardi Senza Gloria sono gli spari dei fucili, che massacrano la famiglia dei Dreyfus presente in casa di Lapadite, mentre in Freaks Out sono le bombe che devastano il tendone del Circo Mezzapiotta, uccidendo gran parte dei presenti. Gabriele Mainetti dimostra di essere abilissimo con la macchina da presa, costruendo una scena preziosissima che – tramite l’ocularizzazione esterna – mostra tutti gli orrori di un’esplosione attraverso movimenti di camera convulsi, tremanti e per mezzo di quel ribaltamento della stessa che introduce un clima orrorifico, di cui purtroppo si avrà ben poca traccia nella restante rappresentazione del film.

Freaks Out: un film politico che non vuole essere politico

Il grande difetto di Freaks Out c’è proprio a questo punto del film, in cui la presentazione del materiale politico all’interno della pellicola appare piuttosto chiara e definita anche dalla cornice storica. Cessando il paragone con Bastardi Senza Gloria, che vuole essere un film di revisionismo storico fin dai suoi atteggiamenti iniziali, il secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti tende a tenere la storia su di un’ideale cornice, che permetta di inquadrare – forse addirittura di dare maggior rilievo – le storie dei freaks raccontate all’interno della pellicola. Il problema si pone nel carattere antitetico di questa scelta: i supereroi mostrati non possono comportarsi come il Jeeg Robot del primo film, che utilizza il suo super potere per svaligiare una banca, semplicemente perché il contesto mostrato impone che ci sia un atteggiamento politico e ideologico completamente differente.

Perché mostrare la guerra, il nazismo e la sciagura dell’ideologia se questi caratteri restano fini a se stessi e servono soltanto a dare un colore maggiore al film che si realizza? Questa domanda non trova mai risposta all’interno del film di Gabriele Mainetti: pur rimanendo anacronistico e apolitico, Freaks Out avrebbe potuto approfondire maggiormente ognuno dei caratteri trattati, dedicando uno spazio maggiore alla trattazione ideologica e permettendo, anche a quella favola che costituisce il tono dominante del film, di funzionare come una tragedia. Basterebbe, senza troppi giri di parole, guardare a Belfast di Kenneth Branagh, distribuito nello stesso anno, per comprendere come un film storico-politico, utilizzando la guerra come sottofondo, possa giustificare la sua scelta in modo coerente.

Freaks Out: il troppo storpia all’interno del secondo film di Gabriele Mainetti

Da parte di chi scrive, non soltanto perché spettatore italiano ma anche perché maggiore apprezzatore del film Lo chiamavano Jeeg Robot, resta il più concreto rammarico nei confronti di un film che osa decisamente troppo e che, per questo, perde i suoi grandi elementi di genialità. Le interpretazioni degli attori sono, ancora una volta, pregevoli, così com’era stato osservato anche nel primo lungometraggio di Gabriele Mainetti: il personaggio di Claudio Santamaria resta sostanzialmente lo stesso, mentre la vena di ironica e ballerina follia viene affidata questa volta a un ispiratissimo Pietro Castellitto. L’interpretazione con cui è maggiormente semplice muovere empatia è, naturalmente, quella di Aurora Giovinazzo, mentre Mainetti deve sicuramente tantissimo a un Giorgio Tirabassi che funziona perfettamente nel suo ruolo a metà tra la crudeltà del reale e il tono sopra le righe del favolistico.

Tra gli elementi positivi emergono anche quelli di scenografia e costume, sui quali il film punta nella ricostruzione di una splendida Roma devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, oltre che nella presentazione di personaggi sporchi, malmenati e oggetto di quell’abbandono che vuole essere non soltanto economico e familiare, ma anche sociale. Tuttavia, è nella regia e in una sceneggiatura che diventa – ancora una volta, così come nel primo film – particolarmente stanca nella seconda parte del film che si identificano gli elementi di debolezza della pellicola: Freaks Out potrebbe durare, senza alcun problema, 30 minuti in meno e non si creerebbero problemi per lo spettatore, che si ritrova di fronte ad un prodotto inutilmente prolungato, piuttosto ridondante e ricco di elementi che – per quanto possano essere molto evocativi – non comunicano nulla né in termini di esigenza narrativa, né in quanto ad emblema di un certo modo di concepire e fare cinema da parte del regista Gabriele Mainetti.

Molte delle immagini di Freaks Out si ereditano da un modo di fare cinema da cui il regista sicuramente attinge, ma che non sa tradurre in un linguaggio personalistico: appare tutto forzatamente inserito all’interno di un film volutamente reso pomposo, nell’estrema voglia di dimostrare di saper fare e conoscere che, in tre parole, diventa: esercizio di stile. Così, nell’ascoltare Creep e Sweet Child O’ Mine suonate al pianoforte (da un Franz che conosce il futuro e ne ruba la tradizione musicale) sembra di osservare il Massimo Troisi che si vanta di aver scritto Imagine all’interno di Non ci resta che piangere; il Bella Ciao cantato dal gruppo di partigiani che salvano Matilde non ha alcuna esigenza narrativa, e sembra stringere l’occhio a quelle modalità di cinema impegnato di cui il film tratta soltanto le appendici; la scena del cannone – la più clamorosa in termini di preziosismo estetico fine a se stesso – vuole riproporre Spielberg con il rallenty, la luna sullo sfondo e i due protagonisti fluttuanti, e a nulla vale anche quella vena ironica di un “bacio elettrico” a stroncare un elemento che non aveva semplicemente senso di esistere all’interno del film.

Un grande capolavoro mancato, nell’idea di proporre un kolossal italiano dal budget di 13 milioni, che avrebbe potuto consacrare definitivamente un Gabriele Mainetti alla regia che, però, si rivela essere ancora acerbo e voglioso di voler dimostrare chissà cosa. L’appuntamento con la mutazione è ancora rimandato.

About the Author

Gabriele Maccauro
Laureato in Lingue Orientali presso "La Sapienza" di Roma, Master in Adattamento Dialoghi per Cinema e Tv presso Accademia Nazionale Del Cinema di Bologna e Sceneggiatore. Amante del cinema e della critica cinematografica.