Recensione – Il prodigio: il nuovo film con Florence Pugh su Netflix

The Wonder recensione del film con Florence Pugh su Netflix

Il prodigio è il nuovo film di Sebastian Lelio su Netflix, con Florence Pugh nei panni della protagonista. Il prodotto cinematografico in questione, che vede l’attrice – già recentemente impegnata per Don’t Worry Darling, di Olivia Wilde – in grande spolvero, costituisce l’adattamento dell’omonimo romanzo di Emma Donoughe, che si è occupata anche di collaborare per la sceneggiatura del film. Attraverso un assetto metareferenziale, che fa della rottura della quarta parete il suo aspetto più esteriore, Il prodigio si propone come un film molto interessante, che vive di aspetti tecnici molto compatti e, soprattutto, di una narrazione ricca di simbolismo. Ecco, dunque, tutto ciò che c’è da sapere a proposito della trama e della recensione di Il prodigio, film Netflix del 2022.

La trama di Il prodigio, di Sebastian Lelio

Il prodigio si apre con un’inquadratura del set del film, che invita lo spettatore a rapportarsi alla storia che si sta per raccontare: gli esseri umani non sarebbero nulla senza storie, dunque sta a chi guarda decidere se credere a tutto ciò che sarà raccontato.

Elizabeth è un’infermiera inglese che viene chiamata a svolgere un lavoro molto particolare: sorvegliare una bambina che non mangia dal giorno del suo undicesimo compleanno, circa 4 mesi, ma che riesce a rimanere perfettamente in forze. Il suo unico compito sarà quello di osservare il comportamento della ragazza per 14 giorni, per poi rendicontare ogni cosa all’auto-costituito comitato religioso per l’osservazione dei comportamenti della ragazza, Anna. Quest’ultima spiega di nutrirsi di “sola manna dal cielo” ma, ben presto, l’infermiera si rende conto che la sua storia è a metà tra la realtà e la finzione. Per questo motivo, cercherà di smascherare in tutti i modi ciò che viene celato dalla famiglia di Anna: è la madre, attraverso il bacio del buongiorno e della buonanotte, a nutrire la figlia attraverso il suo stesso cibo masticato e poi fatto ingerire dalla bambina. Quest’ultima, infatti, ha smesso di mangiare a seguito della morte del fratello, che aveva abusato di lei, e crede che in questo modo Dio possa riconoscere all’uomo l’accesso in Paradiso. Quando la situazione si complica ulteriormente, attraverso la presenza di William, giornalista inglese dal passato scabroso che documenta di quanto accaduto nella dimora irlandese, Anna è ormai prossima alla morte, dal momento che Elizabeth (affettuosamente chiamata Lib dalla bambina) ha vietato alla famiglia di avvicinarsi alla bambina.

È, dunque, alla fine del racconto che l’infermiera decide di salvare la bambina: approfittando di un momento in cui la famiglia è a messa, rapisce la bambina e dà fuoco alla casa, dichiarando al comitato che Anna è morta, per poi far ritorno a Londra con William e la giovane ragazza stessa, che potrà vivere una nuova vita al riparo dagli stenti a cui era stata abituata.

La recensione di Il prodigio, film con Florence Pugh su Netflix

Il prodigio è un film che si iscrive, senza alcun dubbio, in quella categoria di prodotti cinematografici che appartengono alla sfera del pretenzioso e che, nella maggior parte dei casi, si perdono in sterili elucubrazioni che non danno e non tolgono nulla allo spettatore; volontà comune, soprattutto tra i registi che moltiplicano i propri prodotti cinematografici negli ultimi anni, è quella di offrire un sensazionalismo “surrealista” che evidenzi, a scapito di una componente strutturale, il grande artificio tecnico che si cela al di là della macchina della finzione, spesso sacrificando gran parte della narrazione stessa. La premessa è d’obbligo per inquadrare perfettamente il film, entro una cornice di autoreferenzialità e meta-referenzialità che viene immediatamente legittimata, da parte di Sebastian Lelio, attraverso una rottura della quarta parete; è oggetto di interrogativo comune (a cui ci si ascrive), infatti, proprio l’elemento della meta-narrazione che viene offerta attraverso la domanda rivolta direttamente allo spettatore.

“Credere alle storie è un atto dovuto, non una conquista necessaria di chi racconta”, ammonisce il film, che si premura nell’avvisare lo spettatore a proposito della finzione che sta per osservare: eppure, nessun’etichetta riporta che Il prodigio sia un film storico – per quanto basato su eventi leggendari e raccontati in un tessuto sociale come quello irlandese -, né alcun elemento dimostra che ci sia l’intenzione di offrire un racconto biografico a proposito della “prodigiosa” Anna. Appurato, dunque, che il primo atto proppiano di chi osserva sia quello di sospendere la propria incredulità, qual è il fine ultimo di avvertire a proposito del fatto che il film racconti un qualcosa di non necessariamente reale? Se anche questa domanda stessa trovasse una sua risposta in termini di utilità narrativa, non se ne comprende comunque l’esplicitazione in termini di immagine sospesa: se il set all’inizio e alla fine del film non hanno alcun valore di aggiunta narrativa, infatti, la scena (probabilmente la peggiore del prodotto cinematografico) in cui il racconto si sospende per rompere ancora una volta la quarta parete compie addirittura l’errore di far regredire il valore complessivo dell’opera; queste scelte non sono utili, non hanno valore narrativo, non aggiungono nulla all’opera e corrono il solo rischio di dissuadere e distrarre lo spettatore. Perché, allora, servirsene? Qui si ritorna indiscutibilmente alla sfera del pretenzioso, del volontariamente dimostrativo, che si propone in quanto tendenza sempre più netta da parte di chi voglia conferire, ad un proprio film, un aspetto proto-autoriale.

Gli elementi che funzionano nel film Il prodigio

A margine del grosso limite di Il prodigio, che non permette al film di funzionare né come capolavoro, né come potenziale cult nel suo genere – soprattutto in virtù di una nuova visione futura -, non si può fare a meno di annoverare tutti quelli che sono gli elementi che funzionano nel film di Sebastian Lelio su Netflix; se il peso specifico dell’ambito meta-referenziale non è assolutamente banale, dal punto di vista numerico si osserva un ricorso sicuramente positivo a dettagli che restituiscono un’ottima esperienza visiva, sia dal punto di vista prettamente narrativo, sia per quel che concerne la portata estetica del prodotto stesso. Si parte con la caratteristica evidente del cinema di Sebastian Lelio: la fitta presenza femminile, che in questo caso si evidenzia con la preponderanza delle due attrici protagoniste (Florence Pigh e Kila Lord Cassidy). In alcuni punti addirittura eccessiva – tanto da limitare considerevolmente anche il ruolo di un ottimo Tom Burke, già presente nel Mank di David Fincher -, la sopraccitata permette di inquadrare l’universo femminile in ogni sfaccettatura, soprattutto morale, che si serve naturalmente di una richiesta di interpretazioni notevoli.

Florenche Pugh riesce negli intenti, regalando spesso una gestione piatta del suo volto, a metà tra il disilluso e lo speranzoso, soprattutto nelle numerose – ma efficaci – scene in cui mangia: percepire il suono della masticazione, osservare l’attrice cibarsi (in un atto reso celebre, tra gli altri, da Brad Pitt) e contestualizzare la sua azione in un contesto di povertà anche gastronomica, permette di comprendere molto a proposito di quei numerosi simbolismi di cui il film di serve. Dal suo canto, invece, Kila Lord Cassidy permette di restituire perfettamente il clima di inquietudine e di abbandono alla divinità che il prodotto cinematografico vuole raccontare: l’aver perso tutto, a partire dal proprio corpo a seguito di una violenza, sfibra completamente il personaggio di Anna, emaciato non soltanto per la povertà del suo cibo, ma anche per quella che pensa di essere la sua pochezza di spirito.

In un prodotto impostato strutturalmente attraverso canoni di semplicità, Il prodigio si compone sulla base di numerose camere fisse e dell’alternanza tra primi e primissimi piani, che delimitano i confini del volto delle due protagoniste, oltre che mediante frequenti zoom out, che inquadrano la Pugh entro la cornice geometrica di una stanza; allo stesso tempo, i campi lunghi massivamente presenti all’interno del film permettono di incorniciare l’ottima scenografia irlandese del prodotto, che richiama quello stesso investimento che – di recente, seppur con obiettivi narrativi (in quel caso la differenza tra la condizione di schiavutù dei protagonisti e la ricchezza dei padroni, in questo la sottolineatura degli stenti dei protagonisti) completamente differenti – era già avvenuto in The Northman di Robert Eggers. Infine, la fotografia lisergica del film, particolarmente ricca di gialli e verdi, spicca per quelle stesse indicazioni morali che la narrazione del prodotto vuole offrire allo spettatore: la dicotomia tra asservimento religioso e razionalismo scientifico, che porta in scena quegli antichi insegnamenti ascrivibili alla tradizione dell’asino di Buridano, è tra credere e non credere.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.