Recensione – White Noise: il film ipocondriaco di Noah Baumbach su Netflix

Recensione - White Noise: il film ipocondriaco di Noah Baumbach su Netflix

Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia, di cui è stato film di apertura, White Noise è il nuovo film di Noah Baumbach, che torna a dirigere un prodotto dopo l’incredibile successo mediatico e di critica ottenuto con Storia di un matrimonio. Potendo contare su un cast di primo livello, ottenuto sulla base delle interpretazioni di Adam Driver e Greta Gerwig, oltre che da un qui magistrale Don Cheadle, White Noise è un film che si assume la grande responsabilità di adattare sullo schermo il romanzo di Don DeLillo: un vero e proprio manifesto della letteratura post-moderna che si trasforma, non senza difetti, in un’opera ipocondriaca che sottolinea tutte le grandi abilità del regista di The Meyerowitz Stories. Di seguito, viene presentata la trama e la recensione di White Noise, nuovo film presente su Netflix.

La trama di White Noise, nuovo film di Noah Baumbach su Netflix

La narrazione di Rumore Bianco prende le mosse dal 1984; la famiglia raccontata è quella di Jack (Adam Driver) e Babette Gladney (Greta Gerwig), con i loro quattro figli: Heinrich e Steffie, avuti da lui nel suo precedente matrimonio; Denise, figlia del primo matrimonio di Babette e Wilder, che i due hanno avuto insieme. Jack Gladney è un professore di “hitlerologia”, un nuovo campo di studi accademici creato nel Midwest, in cui si cerca di comprendere la componente pedagogica e persuasiva che ha permesso, a Hitler, di ottenere potere. Nonostante i suoi studi, Jack non conoscere il tedesco e, per questo motivo, tiene in segreto delle lezioni private per poter imparare una lingua che dovrebbe essergli familiare.

Collega di lavoro del protagonista è Murray Sisking (Don Cheadle), professore che tenta di ottenere lo stesso successo di Jack attraverso un corso di studi interamente dedicato ad Elvis Presley; è proprio il confronto tra i due, definito soprattutto dall’endorse che il primo dà al secondo “sponsorizzando” il suo corso che permetterà a Murray di portare avanti i suoi studi, basati sulla forte personalità artistica e musicale del Re del Rock ‘n’ Roll. La vita dei protagonisti viene sconvolta da un avvenimento: un furgone che trasporta sostanze tossiche si scontra con un treno in movimento; l’esplosione del primo causa la comparsa di nubi tossiche il cui potenziale pericoloso viene ignorato e che comporta, nel popolo del Midwest, un’irrefrenabile isteria collettiva sulla base di sintomi piuttosto particolari: sudorazione delle mani, nausea e senso di déjà-vu.

Da questo momento in poi, all’interno del film sia viene a contatto con una serie di elementi che riflettono sulla paura della morte e che trasformano il film, fino a quel momento incentrato sulla rappresentazione delle dinamiche familiari, in una commedia surreale che riflette sulle tematiche più disparate.

La recensione di White Noise: la rappresentazione dell’ipocondria e la paura della morte

“La famiglia è la culla della disinformazione mondiale”: è questa, in estrema sintesi, l’espressione che più risulta essere in grado di sottolineare il senso intimo di un film che fa fatica – non è nella sua volontà – a inserirsi in un discorso rappresentativo lineare; la disinformazione, ottenuta sulla base del caos e del botta-risposta convulso a cui ogni essere umano è sottoposto nel suo stare al mondo, è a sua volta il perno fondamentale intorno al quale ruota il significato profondo del film. Figlio di una letteratura postmoderna che si iscrive in un genere sempre più necessario in un mondo che cambia, soprattutto dal punto di vista sociale e psicologico, White Noise è la volontà di tradurre in atto quella costante e imperitura sovra-stimolazione a cui ogni essere umano è sottoposto nell’ambito della contemporaneità; un mondo che offre costantemente i suoi segnali all’ascoltatore, obbligandolo a recepirli e farli propri, è – allo stesso tempo – un mondo caotico, che confonde, svilisce, impaurisce e lascia senza pilastri o punti di riferimento. È un mondo continuamente in movimento, che non si appella più alla grazia del procedere logico e che, parafrasando chi vi approccia con fare poetico, “non ragiona per dialoghi, ma per monologhi intrecciati”.

Così, l’evento catastrofico che dovrebbe cambiare e determinare il senso del film si tramuta ben presto in mero mcguffin: un elemento a se stante, che non muta gli aspetti rappresentativi o narrativi del film, piuttosto ne definisce la precisa inquadratura. Si parla di una nube tossica, di un pennacchio o forse di un catastrofico evento aereo, di un nemico amorfo di cui non si conosce l’identità (alla maniera di Jordan Peele con Nope, che persegue la stessa strada) ma che allo stesso tempo spaventa e mette in moto una macchina ipocondriaca a cui ogni essere umano – che sia per volontà o per senso di adeguamento al moto comune – prende parte. White Noise dimostra che il vero pericolo è al di là della sua materializzazione fisica, osando con movimenti di macchina piuttosto confusionari, zoom improvvisi e imprevedibili, focalizzazioni nette e soggettive caotiche, che tentano di appigliarsi con forza ad un elemento di concretezza mentre tutto intorno c’è il caos: come Jack che, nonostante sia in preda alla paura e circondato da persone che tentano la fuga, decide di salvare Bun Bun, un peluche, dimostrando di poter lottare soltanto per ciò che può vedere e toccare.

Il fattore dell’allucinazione non potrebbe che essere costante: come avverte Heinrich durante la fuga, “si può vedere e vedere”, ed è per questo motivo che il Mr. Grey che Jack tenta di uccidere, per vendicare il torto subito e per dar fede all’istinto assassino insito in ogni uomo, è quella stessa persona che aveva già visto nelle sue allucinazioni. È l’estremo attaccamento alla vita, che governa l’esistenza di ogni uomo: il costante caos che il film tenta di raccontare diventa così il “rumore bianco” che dà il titolo al film, in un rapporto di causalità che permette di conferire senso alla vita di ogni uomo. È la paura di morire, in fondo, che rende vivi.

White Noise e l’esigenza di una rappresentazione psichica

In fondo, pur nella sua confusione costante e nelle scelte stilistiche precedentemente citate, White Noise è un film che dimostra una coerenza rappresentativa netta: basti guardare all’elemento della contrapposizione dicotomica, tra Hitler ed Elvis Presley, o all’incredibile finale del film. Quanto alla prima, il senso si coglie sulla volontà di offrire una narrazione di contrasti che si assottigliano sempre più, per mezzo di elementi convergenti che suggeriscono, al lettore/spettatore, una condizione sociale sempre meno schierata di quanto si possa credere.

Hitler ed Elvis Presley, come dimostrato dall’incredibile sequenza che vede Adam Driver e Don Cheadle dialogare (monologare), parlandosi addosso e non rispondendo mai alla battuta dell’altro, benché siano personaggi antitetici sono, in realtà, posti sullo stesso piano: il rapporto verticale con la genitorialità, l’amore incondizionato del popolo, la capacità persuasiva e l’estrema paura della morte, che crea il moto ondoso in grado di animare la folla. È la metafora degli estremi sociali che vengono sempre più a patti, di un mondo che “ammette di non saper parlare tedesco” pur trattandone le definizioni, di una realtà che si ibrida per mezzo di quella globalizzazione che non è, nonostante gli iniziali intenti, convergenza globale.

In quanto tale, White Noise è un film ancora “acerbo”, sia per la messa in discussione dei suoi elementi, sia per l’innegabile percezione dello spettatore, che risente dell’appiglio a stilemi rappresentativi indubbiamente classici: un giudizio di sorta dovrà, inevitabilmente, essere riscritto a distanza di qualche anno, forse un decennio, quando Rumore Bianco di Noah Baumbach potrebbe essere considerato uno dei primi prodotti in grado di creare integralmente una narrativa totalmente inedita. Di certo, lo si ripete, i difetti non mancano e sono figli di un passaggio che, seppur brusco, certamente ha bisogno di maturare per affermarsi nella sua forma e nei suoi contenuti. La sequenza finale del film, però, dimostra tutta l’esigenza di mettere in atto un cambiamento innanzitutto mentale e psicologico, sempre più perseguito dalla letteratura: è l’esplosione di coscienza civile, la commistione tra musica e cinema che si fa videoclip e che, per mezzo di quel canone di agitazione comune, permette di sintetizzare (pur senza dialogo e per mezzo di soli movimenti convulsi) il costante turbamento che investe ogni soggetto sociale a margine di una nuova storia, che si affretta ad essere riscritta.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.