Recensione – Creed III, l’esordio alla regia di Michael B. Jordan che spreca l’occasione

Creed III recensione film di Michael B. Jordan

Creed III è il terzo capitolo della saga spin-off di Rocky, che ha consacrato uno degli attori più riconoscibili nel panorama hollywoodiano, Sylvester Stallone. A seguito di Creed – Nato per combattere e e Creed II, lo spettatore ha avuto modo di familiarizzare con il personaggio di Adonis Creed, figlio di Apollo Creed in grado di conquistare, pur con un lento percorso, lo scettro di campione indiscusso della boxe, portando sulle spalle il peso di un difficile passato. Il terzo film, per la prima volta orfano della figura di Sylvester Stallone, vede contemporaneamente l’esordio alla regia di Michael B. Jordan, sulla base di una storia scritta da Ryan Coogler e sceneggiata da Keenan Coogler, già impegnato nella sceneggiatura di Space Jam: A New Legacy. Rispetto ai precedenti due capitoli, in particolar modo il primo che aveva fatto ben sperare a proposito della carriera del regista di Black Panther e Black Panther: Wakanda Forever, Creed III rappresenta un importante passo indietro, con un esordio alla regia di Michael B. Jordan che spreca l’occasione.

La trama di Creed III, il terzo film della saga con Michael B. Jordan

Adonis Creed (Michael B. Jordan) è un pugile particolarmente affermato dopo la sua vittoria contro Viktor Drago e, conquistato il titolo di campione del mondo dei pesi massimi, difende – per l’ultima volta sul ring – la cintura, riuscendo in un’agevole vittoria. A seguito del suo ritiro, il figlio di Apollo Creed si dedica alla famiglia e a stabilire un importante legame con sua moglie (Tessa Thompson) sua figlia, rilevando la vecchia palestra di Los Angeles dove allena alcuni possibili pugili della nuova generazione. Contemporaneamente, il suo passato riecheggia attraverso il personaggio di Damian Anderson (Jonathan Majors) che, dopo essere uscito di galera dopo una condanna a 18 anni, cerca di ritornare sul ring.

Damian, infatti, era un pugile particolarmente valido da giovane ed era riuscito, nonostante la sua età, a battere ogni record, affermandosi come il possibile futuro della boxe: in occasione di una serata a seguito di un incontro, però, Dame e Donnie avevano avviato una rissa contro un uomo che, in passato, li aveva più volte pestati. Quando Damian, per difendersi dagli uomini che avevano aggredito il suo amico, ha estratto la pistola, è stato arrestato e, in virtù dei suoi precedenti penali, è finito in prigione per diversi anni. La sua voglia di riscatto passa attraverso la palestra di Adonis Creed, che decide dapprima di renderlo lo sparring di un aspirante campione del mondo, in cerca di una legacy definitiva attraverso l’incontro contro Viktor Drago, poi di portarlo direttamente sul ring: a seguito di un attacco, infatti, Drago è costretto a saltare il match per una frattura alla mano, e Creed decide di rendere Dame il protagonista del match, nonché l’aspirante al titolo. Attraverso qualche scorrettezza e una brutalità mostrata sul ring, Damian ottiene il titolo di campione del mondo dei pesi massimi, sfidando verbalmente Adonis in più di un’occasione.

Quando Donnie scopre che il suo amico si era servito dell’inganno (organizzando l’attacco a Viktor Drago) per salire sul ring, decide di affrontarlo: i due si sfideranno a Los Angeles, per stabilire chi dei due merita la cintura di campione, con un Damian voglioso di riprendersi la vita che gli era stata sottratta e un Adonis che rischia di perdere tutto, dopo aver visto anche sua madre morire a seguito di un ennesimo attacco di ischemia. L’incontro finale è anticipato dal recupero fisico di Adonis che, oltre ad essersi ritirato da tre anni, mostra numerosi problemi fisici in virtù dei passati incontri: nonostante ciò, Adonis Creed riuscirà a battere Damian Anderson sul ring, riconquistando il titolo e sconfiggendo il suo amico. I due, al termine dell’incontro, potranno finalmente riappacificarsi con il passato.

La recensione di Creed III: un esordio alla regia piuttosto deludente, ma non del tutto da dimenticare

Dal debuttante Michael B. Jordan in cabina di regia ci si aspettava un compito sicuramente non semplice: da un lato la pesante eredità della saga di Rocky, portata avanti attraverso lo spin-off di Creed fino ad ora convincente, dall’altro l’assenza di una figura fondamentale nella realizzazione dei primi due film della saga, Sylvester Stallone. Al di là del suo ruolo di attore, infatti, Stallone era stato anche una presenza fondamentale sotto tutti i punti di vista: a partire dall’aiuto in termini di scrittura, fino alla comunicazione di un linguaggio di per sé epico e relativo alla figura di Rocky, che in questo film indubbiamente manca.

L’elemento che aveva caratterizzato i primi due film di Creed è la commistione tra una new wave della boxe, rappresentata dalla figura esteticamente imponente di Michael B. Jordan, e la vecchia e tradizionale forma di pugilato che era stata incarnata dal volto e dal corpo di Sylvester Stallone. Il tutto, naturalmente, era intriso di elementi paesaggistici e culturali, che trovavano spazio soprattutto all’interno dell’ormai disgregata e fatiscente città di Philadelphia, in grado da soli di restituire un alone nostalgico alle pellicole: osservare i due protagonisti dei film ripercorrere gli stessi scalini o confrontarsi con la palestra e la statua di Rocky a Philadelphia ha sempre comportato un rapporto viscerale con i film della saga di Rocky, da cui Creed III inevitabilmente si distacca.

La (pessima) scrittura di alcuni personaggi

Qui la scelta ricade su una tutt’altro che caratterizzata Los Angeles, in cui ciò che si esalta è il costume, più che la storia: ogni elemento è eccessivamente pomposo e posticcio, la storia della decadenza, della fame e della voglia di riscatto viene confinata nella scrittura – anche piuttosto banale – di un solo personaggio, tanto da rendere Creed III tutt’altro che un film di Creed e ben lungi dall’essere un prodotto derivativo di Rocky, quanto più un tentativo di inaugurare una nuova tendenza kitsch con sottofondo di boxe. L’allontanamento di Creed dal ring è un altro problema: se, nel caso di Rocky e di Sylvester Stallone erano state una valida storia e una componente umana a supportare la seconda vita del pugile più famoso del mondo, nel caso di Adonis Creed l’assenza dal ring non è in grado di approfondire tridimensionalmente il personaggio, che si appiattisce quasi alla ricerca di un suo posto nel mondo.

Purtroppo, l’elemento che avrebbe potuto supportare maggiormente il cambiamento vacilla ed è particolarmente lacunoso: la scrittura del film non è in grado di approfondire il post-Creed, svilendo alcuni personaggi (in primis, quello della madre di Adonis) e sacrificando numerosi elementi che avrebbero potuto sublimare la storia di un uomo, oltre che di un campione. Addirittura, il film si serve del personaggio di Viktor Drago, il cui valore era stato reso piuttosto noto, per poi relegarlo a semplice comparsa nella pellicola, tanto da far credere che il suo inserimento sia avvenuto per semplici motivi di marketing e per nient’altro. Per questo motivo, il ritorno sul ring da parte del personaggio interpretato da Michael B. Jordan non è tanto un’esigenza etica (come nel caso di Rocky Balboa), quanto più una necessità narrativa, che finalmente permette di riconquistare lo spettatore probabilmente annoiato da un racconto di scontri e contrasti piuttosto stantio.

Un antagonista che non convince davvero

Il vero difetto del film, però, è purtroppo il personaggio dell’antagonista interpretato da Jonathan Majors: troppo frettolosa la sua trasformazione in “villain”, particolarmente posticcio l’espediente che lo porta ad essere immediatamente campione del mondo e piuttosto prevedibile anche il suo arco narrativo. Nonostante questi difetti, però, il personaggio è scritto anche in maniera positiva, soprattutto nell’ambito di una resa psicologico-morale in grado di giustificare, a tutti gli effetti, le scelte di Damian Anderson: un Majors piuttosto altalenante (per cui erano state mosse delle criticità anche per Ant-Man and the Wasp: Quantumania) sembra, però, essere lontano discendente dello stesso Majors di The Harder They Fall, limitandosi a sovrabbondanti smorfie e movimenti sbilenchi del corpo che rovinano quanto di buono gli fosse stato cucito addosso. L’insieme degli elementi non nasconde una buona capacità di gestione dei momenti d’azione e sul ring (anche in questo caso, i livelli dei primi due film sono lontanissimi), per un Michael B. Jordan evidentemente acerbo che fallisce il suo tentativo.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.