Recensione – Black Panther: Wakanda Forever, il nuovo film del Marvel Cinematic Universe

Black Panther Wakanda Forever recensione film

Se si esclude lo Speciale di Natale di Guardiani della Galassia, che si aggiunge a quello di Licantropus distribuito ai ridossi di Halloween sulla piattaforma di streaming Disney Plus, Black Panther: Wakanda Forever è il film che chiude la Fase 4 del Marvel Cinematic Universe; una Fase definita, da molti, come assolutamente fallimentare, sconclusionata e spesso incoerente per la maggior parte dei suoi prodotti: a seguito di firme importanti, come quella di Sam Raimi per Doctor Strange in the Multiverse of Madness, e di prodotti che hanno deluso il pubblico, tra cui spicca sicuramente Thor: Love and Thunder, Black Panther: Wakanda Forever avrebbe dovuto mettere tutti d’accordo, attraverso l’omaggio a Chadwick Boseman e la prosecuzione della narrazione del MCU. Tuttavia, il film riesce nell’estremo opposto, in tutti i sensi: deturpa la memoria dell’attore che era stato T’Challa nel primo film, conclude oscenamente la Fase 4 del MCU e stanca, fino alla noia, tutti coloro che lo osservano. Questo e altro all’interno della recensione di Black Panther: Wakanda Forever.

La trama di Black Panther: Wakanda Forever

SPOILER ALERT!

Black Panther: Wakanda Forever si apre con il dramma della morte del Re T’Challa, interpretato da Chadwick Boseman all’interno del primo film; la morte dell’attore non ha previsto un recasting per il ruolo di Black Panther e, per questo motivo, è stata presentata la morte anche all’interno del film: nel prodotto diretto da Ryan Coogler, la causa è da attribuirsi a una misteriosa malattia che non può essere curata, in virtù dell’assenza dell’Erba a Forma di Cuore, che è stata completamente incendiata da N’Jadaka quando è diventato Re di Wakanda.

A seguito della morte di Black Panther, l’intero mondo tenta di sfruttare le debolezze del regno e di appropriarsi del vibranio, ma Ramonda (Angela Bassett) ostacola i tentativi delle potenze mondiali; intanto, mentre Shuri (Letitia Wright) tenta di superare la morte del fratello e di vivere un percorso di redenzione che le permetta di oltrepassare anche la sua voglia di vendetta, un nuovo nemico minaccia il regno di Wakanda. Si tratta di Namor (Tenoch Huerta), il Re di Talocan ed effettivo possessore del vibranio che, a seguito degli attacchi umani (che hanno identificato le riserve del materiale presenti sott’acqua, grazie a un macchinario potentissimo), vuole proteggere a tutti i costi il suo popolo, chiedendo aiuto a Wakanda o, in alternativa, dicendosi pronto a sfidarla. Namor, dal suo canto, appartiene alle generazioni di umani che furono vessati dai Conquistadores e che, per mezzo dell’intervento divino, riuscirono a sopravvivere trasferendosi in acqua: si tratta, a tutti gli effetti, di un mutante che presenta ali alle caviglie, può respirare sia sott’acqua che sulla terra e ha una forza sovrumana.

Recensione di Black Panther: Wakanda Forever

Black Panther: Wakanda Forever è un insulto all’intelligenza dello spettatore sotto tutti i punti di vista. Se i prodotti cinematografici e televisivi della Fase 4 del MCU avevano abituato a realizzazioni di basso livello (salvo rare eccezioni, tra cui il Doctor Strange di Sam Raimi e WandaVision su Disney Plus), Black Panther: Wakanda Forever riesce a fare addirittura peggio, se si guarda alle intenzioni che animavano la realizzazione del prodotto. Thor: Love and Thunder è un prodotto che vuole essere sopra le righe, dato il suo regista Taika Waititi, ma che si è tradotto in un film assolutamente inconsistente, vuoto e parodia di se stesso; Eternals di Chloè Zhao, è un prodotto che vuole essere fin dalle sue premesse pretestuoso e che così diventa, in un continuo esercizio di stile narrativo che si rende noioso in tutto e per tutto (benché ne venga millantato l’aspetto di maturità narrativa).

Black Panther: Wakanda Forever evade da questi estremi: voleva essere un film in grado di omaggiare la memoria di Chadwick Boseman e chiudere al meglio il Marvel Cinematic Universe, attraverso una concezione nazionalpopolare che piacesse a tutti e creasse il grande evento. Eppure, il film fa tutt’altro, insultando l’attore che aveva interpretato Re T’Challa e riuscendo nell’impresa di annoiare lo spettatore. I motivi sono numerosi e quasi si fa fatica ad interpretarli tutti: innanzitutto, Black Panther: Wakanda Forever è un prodotto che soffre tantissimo del suo attore protagonista, in grado di renderlo celebre; così tanto da doverlo citare, per mezzo di parole, perifrasi, espressioni o rimandi di altro tipo, circa ogni due minuti di film: si comprende che il vecchio e sempiterno leitmotiv del business is business abbia imperversato anche nella scrittura e nella confezione del prodotto, che ha dovuto vivere un riadattamento – anche concettuale – a seguito della morte di Chadwick Boseman, ma il risultato, in termini di scrittura, sembra essere non troppo dissimile dal tema di scuole elementari scritto in fretta e furia prima della sua consegna.

Tutto ciò che c’è di sbagliato in Black Panther: Wakanda Forever

Mancano le premesse e manca il senso: questo film parla di poco o nulla, svilisce (rovina) tutto quell’impianto simil-impegnato politicamente e moralmente che era stato sviluppato nel primo film, annienta totalmente (anche attraverso la banale scelta delle location) quella trattazione ambiziosa che aveva portato la Marvel a rapportarsi al continente africano, perde (per tragedia e per scelta) gli unici due attori di livello che avevano recitato nel primo film, Chadwick Boseman e Daniel Kaluuya e, in definitiva, racconta qualcosa di meno di una storia; in 2 ore e 40 di film, che avrebbero potuto fare tranquillamente a meno di almeno 30 minuti del secondo atto, si riesce a vituperare qualsiasi elemento anche soltanto concepito nel primo film.

Nonostante il regista, Ryan Coogler, fosse lo stesso del primo film, qui molti più elementi diventano almeno discutibili: le grandi scene, che dovrebbero stupire per la quantità di effetti speciali, lasciano l’amaro in bocca per quell’unico pregevole elemento che era stato destinato a Black Panther, la scenografia e l’effettistica, che qui invece viene peggiorato in virtù dell’ostinazione nel realizzare scene alla Avatar, ma che del capolavoro di James Cameron riprendono soltanto il colore degli oceani; le scene d’azione sono pigre, sbiadite, quasi macchiettistiche, con combattimenti al limite del ridicolo e grandi scontri che diventano miniature di una cartolina: l’ultimo grande scontro tra Wakanda e Talocan, in barba ai grandi eserciti, si risolve sul dorso di una nave, con quattro balene e qualche lancia qua e là. Il (non) villain, Namor, sembra essere ereditato dalla tradizione delle grandi soap opera, a partire dal perché del suo nome: si tratta del chico sin amor, così come gli era stato detto quando ha compiuto il suo primo omicidio; nessuno sviluppo del personaggio, motivazioni ridicole e un destino prevedibilissimo sono i tre elementi che lo definiscono, oltre che l’identikit di una pessima caratterizzazione.

Infine, nota a margine è destinata al peggiore degli elementi: i dialoghi. Che si tratti – anche – dell’adattamento italiano di Black Panther: Wakanda Forever, che li rende ancor più piatti, non è dato saperlo, ma si tratta di frasi che farebbero fatica ad essere sentite come corrette anche nel tema di cui sopra: l’intero secondo atto è pieno di un continuo ripetersi che il proprio fratello è morto, la propria madre è morta, il proprio fratello è morto, la propria madre è morta, mentre l’intero film è ricco di dialoghi e confronti a due le cui battute sembrano essere soltanto la bozza di uno storyboard mai sviluppato.

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Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.