Amsterdam: quando un super cast non basta (Recensione)

Amsterdam: quando un super cast non basta (Recensione)

Accolto tiepidamente da parte della critica, stroncato totalmente dal pubblico costituendo uno dei più importanti flop commerciali degli ultimi anni, addirittura salvaguardato dalla sua stessa produzione che ha evitato di presentarlo in anteprima al Festival del Cinema di Venezia, rimandando la stessa al Festival di Roma: Amsterdam non si presentava, in Italia, sicuramente con le migliori aspettative; nonostante un cast stellare, comprensivo di grandissimi nomi e di un regista che – nel corso della sua carriera – è sempre parso piuttosto altalenante, Amsterdam si rivela essere ciò che esattamente si aspettava: un film che offre poco (pochissimo), un enorme contenitore ricco di grandi talenti (sprecati) e una regia che vuole attingere (male) da questo e quell’elemento, restituendo l’unico risultato possibile dall’unione dei sopraccitati elementi. Un film da dimenticare.

La trama di Amsterdam, il nuovo film di David O. Russell

Al fine di prendere in considerazione la recensione di Amsterdam, il primo elemento da considerare riguarda la sua trama; il film prende le mosse dal 1933, in cui si presenta il protagonista Burt Berendsen (Christian Bale), un dottore che ha uno studio medico all’interno del quale cura le ferite di reduci di guerra; insieme ad Harold Woodman (John David Washington), conosciuto durante la guerra e compagno di reggimento, il dottore accetta di effettuare l’autopsia del padre di Liz Meekins, che aveva permesso loro di conoscersi ed era stato capo di reggimento. Da questo momento in poi, inizia una spirale di eventi incredibilmente negativi per i due, che scoprono che il loro generale è stato avvelenato di ritorno da un viaggio in Europa. Alcuni uomini misteriosi uccidono Liz Meekins e, per comprendere al meglio l’intera narrazione, il film torna indietro nel tempo.

New York, 1918: Burt Berendsen viene spedito in guerra contro la sua volontà da sua moglie e dalla famiglia di lei; qui si troverà a dover sostituire un medico razzista, aiutando e preservando la salute dei compagni di reggimento. Dopo aver conosciuto Harold Woodman, i due stringono un patto in cui promettono di aiutarsi reciprocamente ma, a seguito di una bomba (per la quale Burt perde un occhio), i due vengono portati in infermeria, dove fanno la conoscenza di Valerie Voze (Margot Robbie), che ha una strana passione nel collezionare proiettili estratti dai corpi di feriti, per poi creare opere d’arte. Il patto tra i due amici si estende anche a Valerie e i tre viaggiano insieme ad Amsterdam: qui, i tre possono vivere la loro libertà, Burt ottiene una fornitura a vita di occhi di vetro e gli orrori della guerra sono lontani. Tuttavia, la voglia di tornare a casa spinge prima Burt, poi Harold a far ritorno negli Stati Uniti, dove Harold realizzerà il suo sogno di diventare avvocato e Burt aiuterà i reduci di guerra.

A seguito della morte di Liz Meekins, i due vengono inseguiti da uomini misteriosi e si rifugiano in casa della moglie di Burt, che li indirizza verso la famiglia Voze (l’ultima parola pronunciata da Liz prima di essere brutalmente assassinata): qui ritrovano Valerie, che non aveva mai detto loro il suo vero nome e che non si era più mostrata negli ultimi 12 anni, imbarazzata per la sua condizione. In questa famiglia, infatti, è costantemente sedata da farmaci – per una strana malattia ai nervi che le impedisce di stare a lungo in equilibrio -, oltre che dal carattere autoritario di Tom Voze (Rami Malek) e Libby Voze (Anya Taylor-Joy). I due indirizzeranno Burt e Harold verso il generale Gil Dillenbeck (Robert De Niro), che li aiuterà a risolvere gli strani casi di omicidio.

Quest’ultimo, in pensione, si rifiuta categoricamente di ricevere visite, ma è attratto dai tre e, decidendo di riceverli, ricorderà di averli già incontrati in Belgio, dove questi ultimi gli avevano cantato una canzone senza senso. Il generale rivela di essere costantemente raggiunto da un uomo misterioso, che gli offre dei soldi per pronunciare un discorso che gli è stato scritto. Gli uomini che si sono macchiati degli omicidi appartengono, infatti, a una misteriosa organizzazione, il Consiglio dei Cinque, che vuole destituire Roosevelt e instaurare proprio Dillenbeck a capo di uno stato fantoccio. Harold e Valerie scoprono che il Consiglio opera anche in cliniche di sterilizzazione e, per questo, i tre decideranno – con Dillenbeck – di parlare al Gran Galà, rivelando ogni cosa. Prima delle parole del generale, i coniugi Voze offrono 36mila dollari affinché quest’ultimo non dica la verità a proposito dell’organizzazione (minacciando anche di sopprimere ogni parola che verrà detta) ma, nonostante ciò, Dillenbeck deciderà di rivelare tutto, sfiorato anche da colpi di pistola. Nonostante gli iniziali arresti, che permettono di scoprire che Voze è affascinato da Mussolini e Hitler e ha deciso di instaurare una dittatura fascista anche negli Stati Uniti, tutto sarà negato e soppresso. La scena finale del film mostra il generale parlare al Congresso del 1934, in cui annuncia il pericolo di una minaccia fascista.

Recensione di Amsterdam di David O. Russell: un film senza capo né coda (e con un corpo ridondante)

Cosa c’è di peggio di un film che vuole essere derivativo? Con molta probabilità, un film che non sa esserlo. La tradizione cinematografica del terzo millennio è piena di film storici, oltre che di firme d’autore che tentano – non di rado – di capovolgere gli eventi, presentarli attraverso luci (e voci) differenti, dando un nuovo senso alla storia stessa e recando quella dignità di cui un personaggio potrebbe essere meritevole. In alternativa, si persegue la strada della coerenza narrativa, del rispetto della storia, della rappresentazione pura e fedele. La terza strada – la peggiore – è quella perseguita da David O. Russell con il suo Amsterdam: un film che copia qua è là, che si fida della storia ma che tenta di ribaltarla (salvo poi pentirsene), che si serve in modo pedante di schemi e stilemi cinematografici che hanno fatto la storia di ben altri autori, come se fosse garanzia di successo. Che nasconde, pur non riuscendoci, tutte le sue enormi lacune dietro i volti di grandi attori, che però vengono anch’essi risucchiati dalle sabbie mobili di un film sbagliato dall’inizio alla fine.

Un film a scatole cinesi, che racconta la guerra al di fuori della prospettiva degli orrori, utilizzando un tono favolistico e alternando le epoche esiste dal 2014 e si intitola Grand Budapest Hotel, che a sua volta si ispirava a Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, di Stefan Zweig; un film che racconta la Seconda Guerra Mondiale, mostrando il fascino acritico per i totalitarismi e rappresentando – in chiave revisionistica – la storia è invece datato cinque anni prima e prende il nome di Bastardi Senza Gloria. Chiaro è che questa non vuole essere un’accusa di plagio: eppure, rendersi conto della materia che si osserva presuppone che l’analisi vada oltre la qualità del contenuto o del cast di un prodotto. Il film di David O. Russell non soltanto è derivativo, ma appare anche fortemente indirizzato nella ripresa di tematiche, stili e linguaggi di regia che – in questo caso – appaiono soltanto sbiaditi e di seconda mano. I problemi, a questo punto, sono due: il primo, qualora si voglia osservare un determinato tipo di film, impegnato su tematiche ben precise, perché non si dovrebbe preferire l’originale? Il secondo, anche qualora si scelga di dedicare una possibilità ad Amsterdam (e non è scontato, dato il responso del pubblico), è che si verrebbe catturati dal nulla cosmico che questa pellicola è.

Amsterdam: quando la durata eccessiva non dà ma toglie

Ulteriore elemento, a contorno di quanto detto precedentemente, riguarda l’effettiva durata del film: 134 minuti totali, un secondo atto interminabile e la voglia incredibile di uscire dalla sala prima che la proiezione finisca. Altro grande problema di Amsterdam è la durata: in un’epoca recente in cui i grandi lavori d’autore durano sempre di più (il sequel di Avatar durerà più di tre ore, tra gli altri prodotti), capita spesso di ritrovarsi di fronte a lavori per cui si ha la sensazione che lo scarto tra i minuti rende possibile la differenza tra buono e ottimo lavoro. Per il nuovo film di David O. Russell il discorso è inverso: Amsterdam dura anche troppo; il motivo non risiede tanto nella volontà di scrollarsi di dosso questa congestione intestinale nel minor tempo possibile, quanto nella constatazione secondo la quale ogni scena contiene una quantità esasperante di dettagli inutili.

Al di là del discorso estetismi (il film si serve della fotografia di Emmanuel Lubetzky, tre volte consecutive Premio Oscar dal 2014 al 2016), per cui gli addetti ai lavori si scontrano in materia di effettiva utilità strumentale, c’è da sottolineare che il prodotto ripiega costantemente su se stesso, volendo necessariamente essere sardonico e beffardo. Il risultato di un operare in questo modo ricorda la narrazione di Daniel Pennac all’interno del suo Ciclo di Malaussène, in cui il protagonista si parla costantemente addosso, creando una meta-narrazione ricca di parentesi, grassetti, maiuscoli, botta-risposta tra autore e personaggio, battute fuori contesto e più discorsi sostenuti contemporaneamente. Nella brillante scrittura di Pennac, però, le esigenze narrative hanno un senso altro rispetto a quelle di un film come Amsterdam che, anche in questo caso, non sa trovare la sua effettiva collocazione nello spazio, nel tempo e nella sua scrittura: è un po’ tutto, un calderone enorme di modi di fare di cui ogni addetto ai lavori – a partire dallo stesso regista – ignora l’effettiva rotta.

I 134 minuti totali di Amsterdam uniscono così tanti elementi da appiattire anche quel poco che c’è di buono: permettono ai guizzi positivi di disperdersi all’interno di un pantano, agli spunti di essere assolutamente dimenticati e, in fin dei conti, danno possibilità e voglia di fare qualsiasi altra cosa mentre si guarda il film.

Recensione di Amsterdam: la brutalizzazione del cast all’interno del film

Si chiude con un ulteriore e inesorabile elemento, che deriva dalla visione di Amsterdam: il cast del film viene costantemente brutalizzato, in ognuna delle sue figure, tanto da restituire l’idea secondo la quale ci si diverta a maltrattare così tanto gli attori che si scelgono all’interno di una produzione. Si inizia con il protagonista della pellicola, Christian Bale, a cui si può dire certamente poco: la sua resa attoriale è perfetta nonostante il ruolo, pesantemente ricco di pause, inferenze e accenti che disturbano durante l’intera visione del film. Per l’attore, che sembra essere sempre più attratto dalla sperimentazione negli ultimi anni, Amsterdam costituisce l’ennesimo trofeo di “film di cui è il solo elemento notevole”, a seguito di quanto osservato in Thor – Love and Thunder.

Regge anche Margot Robbie, che non esce dalla comfort zone all’interno di questa pellicola e che porta a casa il ruolo senza infamia e senza lode. La restante parte del cast è assurdamente oggetto di un concreto atto di bullismo perpetuato durante il film: John David Washington (le cui doti attoriali sono costantemente oggetto di un enigma, a margine delle ultime performance), Rami Malek e Chris Rock sono completamente sbagliati nelle intenzioni e nel concretizzarsi di queste ultime; il figlio di Denzel (chiamato solo a seguito del rifiuto di Michael B. Jordan) non ha funzionato come protagonista in Tenet e non funziona come spalla in Amsterdam, per cui verrebbe da chiedersi in che cosa funziona. Chris Rock dovrebbe rappresentare la linea comica del film, la sua controparte leggera, ma finisce per diventare una lamentosa presenza che offre praticamente zero alla stessa; infine Rami Malek, la cui performance si concreta nella mono-espressione di stupore in ogni caso, certo non funziona in quanto antagonista, al di là del fatto che la costruzione del suo personaggio appare, oltre che prevedibile, anche piuttosto banalizzante.

Infine, tralasciando la parentesi effimera di Taylor Swift, restano Anya Taylor-Joy e Robert De Niro che, a differenza dei precedenti, non sbagliano nelle loro interpretazioni, ma vengono torchiati dal ruolo per cui sono stati scelti: la prima è soltanto isterica, bigotta, lamentosa, sbagliata nei modi, negli atteggiamenti e nelle richieste, dunque la volontà di sbarazzarsene annulla ogni altra valutazione a proposito della sua performance. Una domanda, però, resta lecita: non si riesce a ritagliare proprio nulla di meglio a quella che dovrebbe essere l’attrice di punta della nuova generazione? Per Robert De Niro, sempre più specializzato (Joker insegna) in presenze che non danno e non tolgono nulla al film, negli ultimi anni della sua carriera, resta l’amaro in bocca per un’interpretazione che comunque resta importante, ma che non ha il minimo spazio per costruirsi.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.