Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer: quando la mitizzazione non funziona (Recensione)

Mostro - La storia di Jeffrey Dahmer: quando la mitizzazione non funziona (Recensione)

È ormai cosa nota osservare il più classico dei meccanismi di costruzione del prodotto televisivo/cinematografico operato da piattaforme di streaming come Netflix, Amazon Prime Video o Disney+, che si rendono non soltanto mere distributrici del prodotto ma anche produttrici di quest’ultimo; ciò si traduce, nella maggior parte dei casi, in un insieme di logiche costruttive e narrative apparentemente finalizzate alla sola logica del guadagno spicciolo, e sovente si è anche attenti osservatori di tentativi di lucro irrispettoso e frivolo, oltre che di una presentazione che nasconde ognuna delle sue imperfezioni, avvolte in una coltre giustificatoria di redenzione. Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, è – per chi scrive – un goffo tentativo di presentare in maniera subdola temi legati al disturbo psichico, all’indifferenza genitoriale, al razzismo e all’omofobia, permeato attraverso un’opera sporca di mitizzazione di un personaggio (Il Mostro di Milwaukee) che aveva bisogno di tutt’altro che una costruzione apologetica ed epica dei suoi tratti personalistici.

La trama di Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, in breve

La storia di Jeffrey Dahmer è un enorme fatto di cronaca che ha investito il mondo a partire dal 1978, fino al 1992, anno in cui il serial killer statunitense è stato ucciso in prigione da Christopher Scarver. La miniserie ideata da Ryan Murphy si assume il compito di ricostruire gli avvenimenti ben oltre rispetto a quanto sia stato fatto dal film My friend Dahmer, che invece si spingeva fino al primo omicidio del Mostro di Milwaukee. Attraverso la biografia di Jeffrey Dahmer, le interviste e i ricordi che hanno riguardato lo stesso serial killer (oltre che familiari e persone a lui vicine), è stato possibile ricostruire l’intera trama della serie.

Il tutto si traduce in una narrazione che ha naturalmente bisogno di aspetti romanzati: le tempistiche del racconto sono spesso differenti rispetto a quanto dichiarato dallo stesso Jeffrey Dahmer, alcuni personaggi (Tony Hughes su tutti) sono particolarmente tratteggiati nei propri aspetti personalistici, alcune delle ricostruzioni storiche – tra cui la passione per il sezionamento degli animali, attività che ha tenuto impegnati il serial killer e suo padre Lionel per anni – sono volutamente fantasiose; il vero difetto della miniserie ideata da Ryan Murphy, però, certamente non risiede in una mancanza di fedeltà rispetto alla realtà cronachistica, dal momento che molto di quanto raccontato – soprattutto nei dettagli più evidenti, come la sfuriata di Isbell al processo contro Dahmer – viene mostrato in modo particolarmente aderente alla realtà. Per il resto, Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer non si propone di essere una docu-serie, dunque si possono certamente perdonare le licenze narrative che alimentano lo sviluppo della miniserie in questione, soprattutto in vista di una reinterpretazione di linguaggio che dà anima e corpo ad alcune puntate.

Dahmer: perché la lentezza (in questo caso) non è un pregio

La risposta più osservata, in alcuni gruppi social e in molte delle recensioni che sono state lette in tal senso, è “La lentezza della serie è la migliore chiave di lettura possibile di un personaggio che, nel corso della sua vita, è stato lento”. La tesi che si vuole contrastare, naturalmente, riguarda l’effettiva lentezza narrativa di Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer; benché l’antitesi summenzionata presenti un fondo di verità, relativamente alla vita e all’azione di un serial killer tutt’altro che efferato e sensazionalistico, si tratta di una risposta molto pigra, che non riesce a giustificare – se non parzialmente – una scelta narrativa molto discutibile, oltre che una distensione di caratteri rappresentati che non avrebbe certamente bisogno di una così tanto percepibile dilatazione temporale.

C’è un elemento che potrebbe essere chiamato in causa, in tal senso, ma che anch’esso – da solo – non sarebbe in grado di giustificare una scelta narrativa: digerire azioni e narrazioni particolarmente crude, relative agli omicidi barbari compiuti da Jeffrey Dahmer e agli atti post-mortem, non è possibile se non attraverso una graduale somatizzazione del contenuto, che non può certamente essere presentato attraverso una dinamica di azione perpetua e costante; in Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, però, la scelta aprioristica è quella di rinunciare ad una narrazione di questo genere, in virtù di una scelta narrativa che sia psicologicamente pressante ma che non ceda spazio a facili sensazionalismi e che presenti – anche qualora la carne, viva o morta che sia, diventa protagonista sul piccolo schermo – una certa liricità del contenuto. Non si tratta di una novità introdotta dalla miniserie creata da Ryan Murphy: la storia del cinema presenta spesso degli esempi di rappresentazione idilliaca del contenuto violento, come mostrato (in uno degli esempi più recenti) da Matteo Garrone in Dogman; nello stesso anno, il 2018, un altro film era stato realizzato sullo stesso tema, Rabbia furiosa – er canaro. Se il secondo presentava sangue, violenza, turpiloquio e permetteva di sentire il rumore di un cranio spappolato, il primo rinunciava ad un’estetica di questo genere, presentando allo spettatore una fotografia cupa, un dramma di annientamento psicologico e un’introspezione molto più complessa e lenta, anche se funzionante nei suoi intenti e nelle sue tempistiche.

Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer appartiene sicuramente alla scuola del secondo film: se non in rari sprazzi della narrazione, gli omicidi sono soltanto vagheggiati e immaginati dallo spettatore, mentre delle immagini di lobotomia cranica, acido, cannibalismo (se non in una scena che certamente non disgusta) e violenza si ha ben poca traccia all’interno della serie in questione. Non sarebbe in alcun modo un difetto se ciò riuscisse ad essere sostituito da ciò che la miniserie di propone di presentare: la distruzione umana di vite e collettività, il dramma del razzismo imperante all’interno della città di Milwaukee, il senso di indifferenza dell’istituzione, la voce flebile e inascoltata di chi grida aiuto; ognuno di questi caratteri, tuttavia, appare soltanto vagheggiato e tratteggiato sommariamente, dunque la sensazione derivante è di un estremo vuoto, consequenziale ad una narrazione lasciata a metà tra il detto e il lasciato intendere.

I difetti della narrazione in flash forward

Legato a doppio filo con la precedente definizione di struttura narrativa, nella miniserie Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, ideata da Ryan Murphy, il vero limite risiede nelle intenzioni di creare una narrazione in flash forward. Anche in questo caso, non si tratta né del primo, né dell’ultimo prodotto che sarà realizzato attraverso un espediente retorico che – se ben formalizzato – permette di creare una narrazione dai caratteri senza dubbio innovativi e anticonvenzionali: il decimo tra i 500 migliori film della storia secondo la rivista Empire, Fight Club, inizia (così come il libro di Chuck Palaniuk) con la presentazione di quella che sarà l’ultima scene del film stesso, di cui probabilmente si ignorano i contenuti e le motivazioni; di conseguenza, l’intento della narrazione cinematografica risiede nella costruzione di un finale che già si conosce, ma verso cui si tende attraverso l’efficacia del racconto.

Ancora: il piccolo libro Incendi (adattato, tra l’altro, nella perla cinematografica Wildlife, con Jake Gyllenhaal tra i protagonisti e Paul Dano alla regia) inizia con un finale: “Nell’autunno nel 1960, quando io avevo sedici anni e mio padre era momentaneamente disoccupato, mia madre conobbe un certo Warren Miller e si innamorò di lui.” L’intero meccanismo narrativo, a questo punto, ha l’unica finalità di giungere verso quello stesso finale – di cui ci si libera grossolanamente, quasi fosse un peso troppo grande di cui si ha l’esigenza di raccontare subitaneamente – attraverso la bellezza di un racconto che indaga, scava e sviscera ogni aspetto intestino della psiche e della psicologia umana, aggiungendo – in questo caso – un enorme tensione che attrae il lettore in 165 pagine che raccontano di poche ore, facendole vivere come se fossero anni. Richard Ford, Paul Dano, Chuck Palaniuk e David Fincher riescono in un qualcosa in cui Dahmer – Mostro non riesce.

Anche in questo caso, infatti, la miniserie si pone nel mezzo tra due enormi contenuti da cui si attinge superficialmente: da un lato la suspense della queste è immediatamente esaurita (e non potrebbe essere altrimenti, conoscendo la storia di Jeffrey Dahmer), dall’altro il meccanismo di de-costruzione è lento, prolisso, ridondante e si parla costantemente addosso, facendo riecheggiare voci, parole e aspetti narrativi con il pretesto di voler approfondire l’animo del serial killer ma provocando, di contro, un annoiare tipico delle barzellette per cui si è consapevoli che non si riderà al termine di un lungo, e forse troppo articolato, racconto. In più, l’idea di partire con un flash forward non appare neanche originale, quanto più uno specchio per le allodole: presentato come se fosse una grande innovazione, è semplicemente un meccanismo che ha la duplice finalità di attrarre lo spettatore medio e offrire una soluzione decente ad un problema di fondo: una narrazione lineare, conoscendo la storia di Jeffrey Dahmer, probabilmente non avrebbe interessato nessuno.

Quando la mitizzazione non funziona: un serial killer non è un eroe omerico

Si giunge al più drammatico problema della miniserie presente su Netflix, che non ha alcun contatto con gli aspetti strutturali e che riguarda, più concretamente, l’impatto etico che il prodotto ha avuto nei confronti degli spettatori: la mitizzazione del personaggio di Jeffrey Dahmer, che ha avuto sicuramente uno scopo altro rispetto alla reale volontà di presentare un serial killer di cui si conoscono le gesta e di cui si percepiscono ancora gli strascichi. Per comprenderlo, ancora una volta si ricorre ad un esempio, in questo caso tratto direttamente da Netflix che, nelle sue stagioni più recenti, ha ottenuto un successo planetario con Squid Game: uno degli effetti più immediati di quell’incredibile riuscita del prodotto coreano è stato osservare, da parte dell’utenza, un comportamento sostanzialmente automatizzato, che portasse a voler ricercare altri prodotti di matrice simile, oltre che di narrazione analoga; una delle serie che rispondesse a queste logiche fu Alice in Borderland, dai difetti percepibili e dal pathos ben lontano da ciò che Squid Game proponeva, di cui Netflix comprese il potenziale, selezionandolo tra i prodotti correlati e rinnovando la sua scrittura per nuove stagioni.

La logica di packaging fatto e finito di Netflix non ha risparmiato neanche il caso Dahmer: forte della grande attenzione del pubblico rispetto ai temi relativi al crime e alle narrazioni cronachistiche, la piattaforma di streaming ha prodotto il perfetto pacchetto adatto alle logiche di consumo, associandovi (naturalmente) anche Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer, distribuito sulla piattaforma per la prima volta solo alla fine di settembre 2022. Ci si chiede, forse anche troppo banalmente: è davvero giusto creare narrazioni lesive e umilianti, per una certa parte sociale che viene inevitabilmente coinvolta, al fine di ottenere un ritorno economico? Indipendentemente dalla risposta a questa domanda, che riguarda il solo interrogativo di chi osserva e non produce, si vogliono ancora considerare degli aspetti, relativi alla scoperta di quel nervo che, forse neanche troppo involontariamente, viene stimolato e provocato costantemente dalla creazione di prodotti simili.

Questioni di natura etica, a proposito di prodotti come Dahmer, sono vecchie come il mondo: sembra di ascoltare costantemente la polemica contro il Marilyn Manson di turno, o l’accusa di essere – quanto meno – indecorosi che toccò Axl Rose nel trovarsi a cantare una canzone scritta da Charles Manson. Essere creatori di un contenuto, a meno che non si faccia un dichiarato revisionismo alla Quentin Tarantino, vuol dire rapportarsi anche alla crudeltà della storia, ma è pur chiaro che ciò che esiste in Dahmer esula dal discorso delle licenze narrative, toccando aspetti che sono molto più cupi. Eric, cugino di Isbell (di cui precedentemente si faceva menzione), sintetizzò perfettamente il discorso con due tweet che recitano: “Non sto dicendo a nessuno cosa guardare, so che i vari generi true crime fanno ascolti enormi [in questo momento], ma se siete davvero curiosi delle vittime, la mia famiglia (gli Isbell) [è] incazzata per questa serie. Si stanno ritraumatizzando ancora e ancora, e per cosa? Di quanti film/serie/documentari abbiamo bisogno ancora? I miei cugini si svegliano ogni pochi mesi con un sacco di chiamate e messaggi e sanno che c’è un’altra serie su Dahmer. È crudele.”

Lontano dalla volontà di ergersi ad estremo giudice del diritto di proporre, e produrre, contenuti di questo genere, da parte di chi scrive c’è un solo elemento che – in conclusione – vuole essere offerto a proposito della narrazione: Dahmer è (anche se solo parzialmente) colpevole di quel meccanismo di empatizzazione che si è creata nei confronti del personaggio, per quanto la volontà di de-responsabilizzazione in tal senso sia notevole; i tatuaggi di Jeffrey Dahmer, la moda degli occhiali che investirà le serate di Halloween e l’improvviso, quanto riscoperto, amore nei confronti del serial killer non è soltanto un enorme pericolo sociale, ma un meccanismo indotto da parte di una narrazione che non giustifica e che non condanna, credendo di presentare i fatti per quelli che sono ma cadendo nel tranello di far emergere soltanto una parte del tutto, che inevitabilmente conquista per la sua efficacia.

Nelle 10 puntate di Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, ciò che si percepisce maggiormente è l’estrema bravura di Evan Peters che realizza l’interpretazione della carriera, ma che – allo stesso tempo – si confronta con bozze di personaggio, stereotipizzazioni di comportamento e surrogati di narrazione; se da un lato c’è una presenza costante e magistralmente diretta del personaggio protagonista, dall’altro c’è un meccanismo di antitesi debole e grossolano, condotto e scritto in modo pessimo, appena vagheggiato nei suoi aspetti. Dei 17 casi di vittime di Jeffrey Dahmer se ne tratteggiano soltanto due (apparentemente più spendibili nei contenuti), oltre tutto aggiungendo dei caratteri che appaiono fantasiosi lesivi nei confronti delle famiglie delle vittime; del razzismo e dell’omofobia presente tra gli edifici della Milwaukee rappresentata si percepisce soltanto il flebile sussurro, rappresentato da frasi, comportamenti e smorfie facciali degne del più classico B movie: nessun approfondimento, nessuna introspezione, nessuna caratura dei personaggi altri è il contraltare di un emergere del personaggio protagonista, a cui non si oppone nulla che sia degno di essere ben scritto.

La naturale conseguenza di un’azione di questo genere è, chiaramente, l’emergere di Evan Peters e del “suo” Jeffrey Dahmer che, anche quando sta raccontando o compiendo qualcosa di macabro, finisce per essere (flebilmente prima, convintamente poi) compreso, capito e addirittura giustificato nei suoi comportamenti. Nella più classica delle opere di mitizzazione del personaggio, Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer esaurisce tutta la sua condanna nel suo titolo, compiendo un madornale errore che, a posteriori, potrebbe apparire meno banale di quanto si pensa.

About the Author

Bruno Santini
Laureando in comunicazione e marketing, copywriter presso la Wolf Agency di Moncalieri (TO) e grande estimatore delle geometrie wesandersoniane. Amante del cinema in tutte le sue definizioni ed esperto in news di attualità, recensioni e approfondimenti.